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Ci si esprime per farsi capire, altrimenti meglio evitare

Ma l’italiano ha un futuro o è una lingua provinciale? Propenderemmo per il primo corno del dilemma. Famiglia Cristiana ci spiega perché

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Ci si esprime per farsi capire, altrimenti meglio evitare

Ma l’italiano ha un futuro o è una lingua provinciale? Propenderemmo per il primo corno del dilemma. Famiglia Cristiana ci spiega perché

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Ci si esprime per farsi capire, altrimenti meglio evitare

Ma l’italiano ha un futuro o è una lingua provinciale? Propenderemmo per il primo corno del dilemma. Famiglia Cristiana ci spiega perché

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Ma l’italiano ha un futuro o è una lingua provinciale? Propenderemmo per il primo corno del dilemma. Famiglia Cristiana ci spiega perché

L’84° congresso della Società Dante Alighieri, fondata da Giosuè Carducci nel 1889, si è svolto al Quirinale il 12 settembre scorso alla presenza di Sergio Mattarella. Un editoriale di “Famiglia Cristiana” ce ne dà conto. È vero, l’Italia ha poco investito sulla lingua fuori dai confini nazionali. Dopo la sbornia nazionalistica del Ventennio, non avevamo gli occhi per piangere. E ci adattammo al «Primum vivere deinde philosophari». Ma l’italiano ha un futuro o è una lingua provinciale? Propenderemmo per il primo corno del dilemma.

“Famiglia Cristiana” ci spiega il perché. L’italiano nel mondo ha un futuro per il semplice fatto che «la nostra lingua attrae anche chi non ha radici italiane. È impressionante il numero di chi si mette a studiarla: sembra che oggi lo studino più di due milioni di persone. L’italiano nel mondo non è residuale, ma è in crescita costante». Ancora: «Perché studiare l’italiano? Certo non è una lingua veicolare come l’inglese, ma ha un suo valore: la cultura, l’arte, il bello, l’umanità italiana e il nostro stile di vita, il made in Italy, avvicinano alla nostra lingua». Infine, il giornale sottolinea che al congresso romano della Dante Alighieri il ministro degli Esteri Antonio Tajani «ha proposto di tenere annualmente una giornata dell’italofonia, cui invitare Svizzera, San Marino, Vaticano (dove l’italiano è lingua ufficiale) ma anche Paesi fortemente italofoni come l’Argentina o l’Albania».

In Vaticano l’italiano è la lingua ufficiale. In Italia lo stabilisce la legge 15 dicembre 1999 n. 482. Ma la Costituzione colpevolmente tace al riguardo. E i reiterati tentativi legislativi di riempire la lacuna non hanno sortito effetto. Piero Calamandrei sosteneva che le norme costituzionali hanno sempre una loro funzione pedagogica. In assenza delle quali, la pedagogia va a farsi benedire. E si vede a occhio nudo. Come il celeberrimo Padre Zappata, predichiamo bene e razzoliamo male. Perché una cosa è certa: mai come adesso, all’interno dei confini nazionali, la lingua italiana è – per fare dell’amara ironia – un optional. Ma sì, un’illustre sconosciuta. Studiato all’estero, l’italiano è bellamente ignorato o maltrattato qui da noi.

Limitiamoci alle quisquilie. Se voi domandate soprattutto ai giovani «Vi piace questa cosa qui?», il più delle volte la risposta sarà «Assolutamente». A parte il fatto che gli avverbi in ‘ente’ andrebbero usati con parsimonia, sembra che facciano di tutto per complicare le cose semplici. Sì o no? Chissà. Ma anche quando si dice sì o no, non si capisce il bisogno d’insistere sull’avverbio. Un rafforzativo? Mah. E ora, dalle stalle alle stelle. Giorgia Meloni parla un buon italiano. E, soprattutto, ha il dono di farsi capire. Ma ha un tic del quale si dovrebbe liberare. Fateci caso. Fatta una premessa, immancabilmente prosegue con un «Dopo di che». Capisco il divenire, il panta rei. Un Eraclito è sempre meglio di un Parmenide, fermo come un paracarro. Ma il troppo stroppia. Così l’uso diventa abuso.

Passiamo, per restare nelle alte sfere, al neo ministro della Cultura Alessandro Giuli. Nel suo recente libro dal titolo “Gramsci è vivo”, adotta un lessico tanto aulico quanto enigmatico. Basti qualche esempio: «l’enfiagione crepuscolare»; «un’aurora normalizzante»; «urge una destra capace di affermare se stessa illuministicamente e neutralizzare ogni sintomo di recidiva novecentesca reincarnatasi nel ‘terribilismo’ assertivo degli ultimi arrivati, e di cui le recenti varianti ‘vannacciste’ non rappresentano altro che vanagloriose e infantili declinazioni»; «una destra intenzionata a disincagliarsi dalla caricatura mostrificante che gli odiatori cercano di cucirle addosso». Giuli, benedett’uomo, si spezza ma non si spiega. Si fa un vanto di scrivere oscuro. Ma perché farsi del male?

Mussolini domandò chi fosse quel professore che scriveva così bene. Era un giovane Giovanni Spadolini che nel 1974 inaugurerà il Ministero per i Beni culturali. Un predecessore di Giuli. Volete mettere la differenza?

di Paolo Armaroli

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