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Clima, caldo e occasioni sprecate

Le guerre di religione non portano bene. Figurarsi su temi come il clima e la transizione energetica, dai quali dipende un pezzo del nostro futuro
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Le guerre di religione non portano bene. Figurarsi su temi come il clima e la transizione energetica, dai quali dipende un pezzo del nostro futuro
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Le guerre di religione non portano bene. Figurarsi su temi come il clima e la transizione energetica, dai quali dipende un pezzo del nostro futuro
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Le guerre di religione non portano bene. Figurarsi su temi come il clima e la transizione energetica, dai quali dipende un pezzo del nostro futuro

Le guerre di religione non portano bene. Figurarsi su temi come il clima e la transizione energetica, dai quali dipende un pezzo rilevante del nostro futuro in termini di salute pura ma anche di benessere economico (che non viene poi così dopo).

In questi giorni estremi non c’è argomento più dibattuto del caldo, dell’umidità insopportabile, di un’estate che chiunque di noi fatica a riconoscere scavando nella memoria personale. Che si debba porre la massima attenzione agli effetti delle attività umane sugli equilibri del nostro pianeta non è un tema oggetto di possibile dibattito. È un fatto, che però può essere affrontato abbandonandosi ai fumi dell’ideologia sempre dietro l’angolo oppure scegliendo un approccio razionale e utilitaristico.

Le cicale fanno tanto estate, cicalare non è mai una buona cosa. Sì, perché il grande processo della transizione energetica è eminentemente una questione economica, un enorme business in grado di ridisegnare gli equilibri geopolitici del mondo. Il New Green Deal fortemente voluto dalla Commissione europea della presidente Ursula von der Leyen risponde senza il minimo dubbio anche a imperativi ‘morali’ di massima attenzione per il clima e la nostra Terra, ma resta una strategica dichiarazione d’intenti dell’Unione di tipo industriale e produttivo.

La realtà a noi più vicina resta quella dell’elettrificazione della mobilità. I trend non sono un cruccio, una moda o una fissazione: sappiamo tutti che continueremo a utilizzare ancora per molti anni macchine spinte da motori endotermici, ma anche che tutti gli investimenti delle grandi case automobilistiche mondiali sono ormai sull’elettrico. Somme gigantesche, piani industriali a lunga scadenza da cui appare utopistico credere di poter tornare indietro. La macchina elettrica, insomma, può stare antipatica o simpatica, ma la cosa è del tutto irrilevante. Si sta andando in quella direzione a livello globale e far apparire determinanti uno o due anni di proroga è quantomeno illusorio. Colpevolmente illusorio, aggiungeremmo, perché compito della politica è quello di creare le migliori condizioni per lo sviluppo industriale in prospettiva, non difendere interessi corporativi di settori comunque destinati a essere scavalcati dalla realtà. L’elettrificazione è un’opportunità, come l’insieme della transizione, purché si ragioni liberi da preconcetti. Non siamo condannati alla dipendenza dalle batterie cinesi, per esempio, a patto di investire ingenti capitali nelle gigafactory e nella ricerca su batterie sempre più efficienti e meno inquinanti. È bastata la recente notizia della scoperta in Norvegia di un enorme giacimento di fosfati – che potrebbe rendere l’Europa più indipendente dal Dragone cinese nella produzione di batterie – per far apparire un po’ meno scontata la realtà che si va raccontando da anni in questo settore.

È un esempio, così come la coscienza ecologista dei nostri figli non dev’essere vissuta come una contrapposizione fra generazioni, ma come garanzia dei futuri sviluppi anche delle filiere produttive. La decrescita felice e l’Armageddon ecologista sono baggianate per adulti creduloni; i ragazzi vogliono opportunità nel rispetto del pianeta e di un futuro che interpretano ‘green’ con una naturalezza che non riconosce le forzature ideologiche. Loro ci mettono tutta la passione e il senso d’urgenza dato dall’età. Spetta a noi adulti avere un approccio rispettoso delle esigenze reclamate a gran voce dai più giovani e al contempo dei delicatissimi e complessi ingranaggi dei moderni modelli produttivi.

Quanto alla specificità italiana, siamo stati fra i migliori protagonisti a livello mondiale dell’industria del secondo dopoguerra, non si vede perché non dovremmo sapere interpretare le sfide imposte dal futuro.

di Fulvio Giuliani

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