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Con mammà fino a 34 anni, qualche perché in più

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Numeri impressionanti sulla quota di ragazzi fra i 18 e i 34 anni che in Italia vivono ancora con i genitori. I nostri figli non li prepariamo in modo adeguato al mondo di oggi

Con mammà fino a 34 anni, qualche perché in più

Numeri impressionanti sulla quota di ragazzi fra i 18 e i 34 anni che in Italia vivono ancora con i genitori. I nostri figli non li prepariamo in modo adeguato al mondo di oggi

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Con mammà fino a 34 anni, qualche perché in più

Numeri impressionanti sulla quota di ragazzi fra i 18 e i 34 anni che in Italia vivono ancora con i genitori. I nostri figli non li prepariamo in modo adeguato al mondo di oggi

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Gli ultimi dati sulla quota di ragazzi fra i 18 e i 34 anni che in Italia vivono ancora con i genitori sono impressionanti: secondo l’Istat, la media nazionale supera il 67%, mentre al Sud si scavalla quota 70 e in Campania – la Regione dei record – schizza al 75%.

Lasciamo da parte le antiche polemiche sui “bamboccioni“: portarono male al povero Tommaso Padoa Schioppa che tutti i torti proprio non li aveva e hanno favorito un dibattito spesso semplicistico e a tratti becero.

È del tutto indiscutibile che le gravi incertezze economiche, la difficoltà di immaginare un futuro, il sentirsi troppo a lungo ai margini di ruoli di responsabilità nel lavoro e più generale nella vita, contribuiscano a questo adagiarsi in situazioni che sono frustranti per degli ultra trentenni, per quanto non “scomode“.
Da mamma e papà, non raccontiamo storie, generalmente male non si sta.

È comprensibile – lo scriviamo senza alcuna malizia – che davanti a poche prospettive ci si adatti qualche anno in più nella casa natia. Nelle condizioni date è una soluzione logica, per quanto limitante e procrastinante.

Quello che dovrebbe letteralmente mandarci fuori di testa è la totale incapacità di affrontare il problema in termini di verità: scontiamo gravi ritardi professionali, contrattuali e certamente economici, ma sopra ogni altra cosa i nostri figli non li prepariamo in modo adeguato al mondo di oggi.

Non lo facciamo a scuola, non lo facciamo all’università, non lo facciamo nei primi anni di lavoro. Prima ce lo ficchiamo nella testa è meglio sarà per tutti. E soprattutto per loro. Quel 67% che se ne resta fino a un’età abbondantemente adulta a casa dei genitori è figlio anche di una scuola in cui raccontiamo la balla che sforzarsi un po’ di più, imparare a competere, giudicare con onestà e serenità non faccia parte della vita. Dimentichiamo che il merito e la sana competizione, accompagnati dalla capacità di premiare la volontà e non lasciare nessuno indietro, sono la migliore garanzia che un sistema sociale come il nostro possa offrire ai figli dei meno ricchi. Fra i banchi di scuola e nelle aule universitarie queste sono le uniche, vere armi per colmare il gap economico che i figli di papà – quelli veri – potranno sempre vantare.

Se invece facciamo a gara ad appiattire tutto, a omologare verso il basso, fregheremo sempre i più deboli. Mancheremo a un impegno che è l’anima del nostro vivere civile: pari opportunità di partenza per tutti.

Occupiamo pagine e pagine, ore di radio e tv a dire che i contratti sono pessimi, che i ragazzi non li facciamo crescere, poi misteriosamente circa mezzo milione di posti di lavoro restano vacanti perché di professionisti qualificati non ce n’è l’ombra. Quegli stessi ragazzi non li formiamo e laureiamo, li lasciamo in una pochezza di mezzi intellettuali e pratici che nel mondo di oggi è una condanna.
Per finire, converrebbe ricordare che la fatica di imparare e realizzarsi non è una brutta cosa. Anzi.

Di Fulvio Giuliani

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