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Sergio Marchionne, il dirigente visionario

Il ricordo di Sergio Marchionne, l’imprenditore genialoide capace di convincere Barack Obama ad affidargli Chrysler nel giro di poche settimane
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Fra l’autunno 2008 e la primavera 2009 il mondo sembrava sul punto di implodere. La crisi finanziaria innescata dalla bolla dei mutui subprime statunitensi si stava rapidamente tramutando in crisi economica e sistemica. Proprio in quei mesi terribili Sergio Marchionne realizzò il capolavoro della carriera: l’acquisizione della Chrysler, il più piccolo dei colossi automobilistici statunitensi ma pur sempre un’icona americana e uno dei simboli globali dell’automobile. Mise a segno il colpo nel momento e nelle condizioni peggiori possibili. Almeno in teoria.

In realtà questo manager nato in Abruzzo, formatosi in Canada e trasferitosi in Svizzera per cogliere i primi, clamorosi successi professionali aveva trovato nella più tremenda delle crisi le condizioni per realizzare una manovra impossibile in tempi “normali”. Fu allora che seppe intravedere una convergenza fantasiosa e coraggiosa. Da un lato le esigenze di un’industria legata per tutta la sua storia – sino a quei giorni – ai destini di una famiglia e di un Paese; dall’altro le necessità politiche di un neopresidente entrato alla Casa Bianca in una fase economicamente drammatica. Aver convinto nel giro di poche settimane Barack Obama ad affidargli Chrysler sembrò incredibile.

Erano gli anni, del resto, in cui Marchionne passava come un uragano nel sonnacchioso mondo della grande industria italiana. Portò a Torino una cultura del lavoro, la sua. Cambiò nel giro di pochi mesi l’idea stessa di lavoro in azienda, travolgendo le strutture esistenti, sostituendo senza pietà donne e uomini, promuovendone altri e imponendo ritmi e obiettivi apparentemente impossibili. La Fiat era un’azienda pressoché fallita, spolpata da un management pronto a schierarsi contro la stessa famiglia Agnelli.

Davanti a impianti lasciati andare al loro destino, a una buona parte dei lavoratori in cassa integrazione e al futuro ridotto ormai a ipotesi, Marchionne non si capacitava che si potesse buttar via tempo in battaglie di potere su un cadavere. Nella breve stagione del risanamento, del ritorno in fabbrica di tutti gli operai, dell’azzeramento del debito, della riscoperta dell’utile e del colpaccio Chrysler, il manager venuto dal Canada fu l’eroe di tutti. Rimessa l’azienda in cammino, azzeccati alcuni colpi storici come la nuova “500” o i modelli di Jeep (l’americanissima Jeep!) costruita a Melfi e spedita a invadere il mercato Usa, Marchionne divenne rapidamente scomodo.

Nel Paese la cultura del merito, della concorrenza fra talenti, delle promozioni per capacità e non per amicizia resta(va) estranea. Iniziò a stare sulle scatole a molti e i suoi maglioncini a buon mercato comprati rigorosamente online si tramutarono da vezzo di un manager genialoide in segno del disprezzo per l’ordine costituito. Apparve un difetto essere più a suo agio con l’inglese che con l’italiano.

Come in ogni uomo animato da un’insopprimibile fame di novità e movimento, commise rilevanti errori. Vide dopo altri la svolta dell’elettrico, tanto per cominciare. Errori e “vittime” lungo il cammino li metteva nel conto, a cominciare dalla sua stessa vita e dagli affetti più cari, a cui si negò investendo tutto il proprio tempo nel lavoro. Volle così e proprio in questo modo crediamo avrebbe voluto essere ricordato.

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