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Cuochi e diete per dittatori

Fame da dittatore

Anche i luoghi in cui si produce il cibo, che finirà nello stomaco di un dittatore, hanno una valenza politica e soprattutto strategico-militare preponderante
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Fame da dittatore

Anche i luoghi in cui si produce il cibo, che finirà nello stomaco di un dittatore, hanno una valenza politica e soprattutto strategico-militare preponderante
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Anche i luoghi in cui si produce il cibo, che finirà nello stomaco di un dittatore, hanno una valenza politica e soprattutto strategico-militare preponderante
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Anche i luoghi in cui si produce il cibo, che finirà nello stomaco di un dittatore, hanno una valenza politica e soprattutto strategico-militare preponderante
Fate bene attenzione a questi nomi: Abu Alì, Otonde Odera, Erasmo Hernandez, Yong Moeun. Non vi dicono nulla, vero? Ebbene, sappiatelo, questi sono nomi di persone davvero speciali, gente che ha letteralmente ‘preso per la gola’ uomini capaci di sterminare altri esseri umani, di affamare popoli, di reprimere idee di libertà. No, non si tratta di dissidenti o di eroi della resistenza. Stiamo parlando di cuochi: sì, semplici cuochi o super chef di regime, se preferite. Ciascuno di noi è portato a immaginare che i luoghi sensibili, ‘attenzionati’ dai regimi dittatoriali siano i campi di battaglia, la televisione di Stato, l’azione dell’intelligence, i Ministeri, le war room con consiglieri e generali. A ben vedere anche le cucine, i luoghi in cui si produce il cibo che finirà nello stomaco di un dittatore, hanno una valenza politica e soprattutto strategico-militare preponderante. Fatto sta, e la storia ce lo insegna, che buona parte della paranoia dittatoriale si è riversata sul cibo da ingoiare: la presenza alle tavole di schiere di “assaggiatori di regime”, autentici stuntman anti-avvelenamento, ha caratterizzato la storia della tirannide dai fasti dell’antica Roma fino al nazismo. Non ne è esente, in tal senso, alcun regime autocratico anche se spolverato dalla modernità. Lo racconta bene il polacco Witold Szablowski in un libro-reportage (“Come sfamare un dittatore”, Keller Editore) costato più di cinque anni di ricerche e che narra decenni di storia politica dittatoriale attraverso la visuale fumosa, ebbra di brodi e rumorosa di mestoli e casseruole, di alcune illustri cucine.
Per esempio Abu Alì, cuoco personale di Saddam Hussein, ricorda il suo principale come un autentico amante del cibo iracheno, quello vero (kofta, pacha, qubbah) originario del Tikrit; ma attenzione: bastava un granello di sale in più (o in meno) per far scattare una sanzione pecuniaria pari a 150 dinari. La cucina, altresì, faceva parte dell’ingranaggio bellico di Saddam, che nel suo ultimo periodo al potere esigeva che nelle decine di sue residenze personali venissero preparati e serviti colazione, pranzo e cena, sempre alla stessa ora e anche in sua assenza: una tecnica per aggirare spie e nemici. Paranoia, veleni, calunnie sostavano presso i fornelli del dittatore ugandese Idi Amin. Il suo cuoco personale Otonde Odera giura che non fosse cannibale come leggenda vuole, piuttosto un amante della capra arrosto e, in qualche modo, necessitato a decimare i suoi stretti collaboratori, a far agonizzare centinaia di dissidenti in fosse piene di sterco, a fucilare persone sulla base di una semplice illazione. Nel frattempo le cucine continuavano il loro saporito tran tran, che tutti avevano bisogno di lavorare.
Fidel Castro, invece, non aveva bisogno di chef: era lui il miglior cuoco di Cuba, anche a detta di Erasmo Hernandez, cuciniere ‘titolare’ del regime castrista. Fidel decise che nell’isola si consumava troppa carne e virò le proprie abitudini alimentari (e, quindi, anche quelle del suo popolo) verso i latticini: formaggio e yogurt in primis. E poi quella mucca: Ubre Blanca. Il Comandante ne era innamorato. Grande stazza, grandi seni bianchi, oltre 100 litri di latte prodotti al giorno. Castro esigeva che per lei si raccogliesse l’erba delle Bermude, la migliore. Quando Ubre Blanca ridusse le sue prestazioni, il buon Fidel la uccise con un colpo d’arma da fuoco in testa.
E Pol Pot? Amava la zuppa di serpente e sorrideva spesso alla sua cuoca personale Yong Moeun che ricorda sì le fucilazioni, i processi sommari, le torture, i massacri ma giustifica tutto: «La rivoluzione, in fondo, non doveva fermarsi». Buon appetito a tutti! Di McGraffio

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