Il fast fashion è tra i fenomeni più rivoluzionari ad aver contraddistinto la moda negli ultimi decenni. Si basa sulla capacità di produrre capi a basso costo, in linea con le tendenze di mercato più rapide, distribuendo globalmente i prodotti in tempi record. Questo modello ha trasformato la concezione stessa di vestiario e consumo dell’abbigliamento, avvicinando la moda ad un pubblico maggiormente ampio. Tuttavia, la complessità delle catene di approvvigionamento internazionali e la logistica integrata, che da sempre hanno permesso di contenere i costi, sono messe a dura prova dalle dinamiche commerciali attuali. Su tutte, l’introduzione dei dazi da parte di Trump. La sua politica protezionista sta danneggiando drammaticamente il comparto del fast fashion: brand come Shein, Zara, Temu e altri colossi low cost affrontano rincari, incertezze logistiche e pressioni sui margini di bilancio, che rischiano di trasformarne i modelli di business.
La fine dell’esenzione “de minimis” per le spedizioni dalla Cina verso gli Stati Uniti (la stessa permetteva l’importazione di beni di valore inferiore agli 800 dollari senza l’applicazione di dazi doganali e con procedure semplificate) ha comportato l’applicazione di una tariffa del 54%, oltre ad una tassa fissa di 100 dollari per spedizione. I dazi hanno aumentato pure i costi unitari, che le aziende possono assorbire solo in parte senza intaccare la marginalità. Le alternative scarseggiano: potrebbero trasferire i costi ai consumatori alzando i prezzi, oppure rivedere ed ottimizzare le catene di produzione e distribuzione.
Molte sono le realtà che stanno cercando di rilocalizzare parte della produzione in paesi più vicini ai mercati finali come il Sud-Est asiatico per ridurre l’impatto delle tariffe doganali. Inoltre, il settore sta intensificando gli investimenti in digitalizzazione ed innovazione tecnologica per migliorare l’efficienza logistica e la gestione dei magazzini, diminuendo tempi di consegna e costi accessori. Questa strategia si regge su un delicato equilibrio: mantenere prezzi competitivi senza rinunciare alla responsabilità ambientale e sociale, tema sempre più caro soprattutto ai consumatori giovani.
In uno scenario dove rincari ed incertezza sulle consegne influenzano il mercato, la domanda di prodotti fast fashion potrebbe ridursi circa del 12% già nel prossimo semestre. I costi aggiuntivi nelle spedizioni hanno indotto molti consumatori a prediligere acquisti da piattaforme locali o brand che garantiscono una più rapida. Anche i grandi gruppi occidentali e asiatici del settore non sono immuni alle pressioni: i nuovi scenari geopolitici e climatici stanno ridefinendo la globalizzazione della moda, spingendo verso una maggiore regionalizzazione delle produzioni ed un’economia più circolare.
Per sopravvivere e prosperare nel nuovo contesto, i brand di fast fashion devono innovarsi sul piano tecnologico e della sostenibilità. Dal miglioramento dei processi di produzione con materiali riciclati e pratiche etiche, fino all’adozione di sistemi digitali avanzati per il monitoraggio e la gestione della filiera, il settore è chiamato ad un cambio di paradigma. Se saprà compierlo, potrà riscontrare opportunità prospere pure in un futuro contraddistinto dall’incertezza.
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