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Frutti avvelenati

L’assalto al Campidoglio di un anno fa è una lezione che non va dimenticata e che ricorda i tempi nefasti di certi estremismi populisti. In un’America dove il 34% giustifica l’uso della forza in politica, è bene ricordare che la democrazia è altro tipo di partecipazione.
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Frutti avvelenati

L’assalto al Campidoglio di un anno fa è una lezione che non va dimenticata e che ricorda i tempi nefasti di certi estremismi populisti. In un’America dove il 34% giustifica l’uso della forza in politica, è bene ricordare che la democrazia è altro tipo di partecipazione.
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Frutti avvelenati

L’assalto al Campidoglio di un anno fa è una lezione che non va dimenticata e che ricorda i tempi nefasti di certi estremismi populisti. In un’America dove il 34% giustifica l’uso della forza in politica, è bene ricordare che la democrazia è altro tipo di partecipazione.
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L’assalto al Campidoglio di un anno fa è una lezione che non va dimenticata e che ricorda i tempi nefasti di certi estremismi populisti. In un’America dove il 34% giustifica l’uso della forza in politica, è bene ricordare che la democrazia è altro tipo di partecipazione.
Un anno fa l’assalto al Campidoglio di Washington. Un evento che segnò fragorosamente l’inizio del 2021, ma che avrebbe potuto infliggere una ferita mortale alla democrazia degli Stati Uniti d’America e a noi tutti. Non è andata così, perché gli anticorpi si sono dimostrati più forti della follia di quelle ore e della sconsiderata e folle acquiescenza di chi avrebbe occupato ancora per pochi giorni la Casa Bianca. Con un’importante e decisiva eccezione, che in Italia abbiamo dimenticato troppo in fretta: la presa di posizione, secca e immediata, del vicepresidente di allora Mike Pence. A differenza del suo boss (espressione non casuale, considerata la concezione trumpiana dei rapporti di lavoro), sconfessò immediatamente l’assalto armato al tempio della democrazia americana, spazzando via qualsiasi acquiescenza a quel dire-non dire che costituì il più triste lascito dei quattro anni di Trump nello Studio ovale. Gli Stati Uniti ne sono venuti fuori, non senza ferite evidenti. Troppo grave ciò che era accaduto, troppo estremo per un Paese che si era illuso di essere ormai immune ai rigurgiti irrazionali e ribellistici che andarono in scena quel giorno. Un’America sbigottita e sconcertata si rese conto – anche quella che con The Donald alla Casa Bianca aveva fatto finta di guardare da un’altra parte – di quanto la democrazia resti una conquista quotidiana. Ancor di più mentre ci si beava di un isolazionismo di ritorno, dolorosamente irrealistico nel mondo globalizzato di oggi. Gli Stati Uniti, dopo quelle ore sospese fra tragedia e farsa, si risvegliarono intorpiditi. Consapevoli di limiti sino ad allora solo immaginati o sussurrati, estranei alla mentalità di chi è abituato a solcare il mondo con l’aria di chi non debba chiedere mai. Ricordiamo tutti le corna dello ‘sciamano’, ma quella fu la più classica delle ‘americanate’, come affettuosamente amiamo definire le esagerazioni e teatralità di un popolo a cui vogliamo bene. La sostanza, acida e pericolosa, era ben più inquietante di quel personaggio che sembrava uscito da un film di Woody Allen prima maniera. L’assalto al Campidoglio è una lezione per l’intero Occidente, che nonostante tutto resta immensamente preferibile a qualsiasi altro modello, come illustriamo oggi nelle pagine interne paragonandolo agli estremismi e agli azzardi dei regimi dittatoriali. Consapevolezza che la democrazia si difenda ogni giorno, dunque, ma non solo: l’assalto di Washington, uno dei frutti più avvelenati della lunga stagione populista, richiama direttamente la responsabilità di ciascuno di noi. In democrazia non vale ‘chiamarsi fuori’, fare gli spettatori, aspettare cinicamente di capire dove soffi il vento prima di indirizzare le proprie vele. La nostra visione della civiltà, nella sua accezione più alta, è partecipazione. Conosciamo bene gli effetti nefasti delle cambiali in bianco, che qualcuno tende ancora a dimenticare.   di Fulvio Giuliani

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