Giancarlo Siani, il giornalista-giornalista ucciso dalla camorra
Negli anni’80 pubblicò oltre 600 articoli contro la camorra. La sola guerra combattuta nella sua breve vita fu contro l’ingiustizia e la malavita
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Giancarlo Siani, il giornalista-giornalista ucciso dalla camorra
Negli anni’80 pubblicò oltre 600 articoli contro la camorra. La sola guerra combattuta nella sua breve vita fu contro l’ingiustizia e la malavita
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Giancarlo Siani, il giornalista-giornalista ucciso dalla camorra
Negli anni’80 pubblicò oltre 600 articoli contro la camorra. La sola guerra combattuta nella sua breve vita fu contro l’ingiustizia e la malavita
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Negli anni’80 pubblicò oltre 600 articoli contro la camorra. La sola guerra combattuta nella sua breve vita fu contro l’ingiustizia e la malavita
La sola guerra combattuta da Giancarlo Siani nella sua breve vita è stata quella contro l’ingiustizia e la malavita. Le sue sole armi, una penna e un taccuino. Oggi che i giornali non contano più niente, come ricorda nel suo encomiabile editoriale Enzo D’Errico (direttore del Corriere del Mezzogiorno) la camorra non si sognerebbe mai di toccare un “pennivendolo”. È il rovescio della medaglia per una realtà che è cambiata, anche in peggio. Siani era un precario del Mattino, un giornalista-giornalista, per citare il titolo di un libro a lui dedicato. Uno che in una manciata d’anni aveva pubblicato oltre 600 articoli, molti dei quali relativi ai fatti di camorra. Allora, a metà degli anni ’80, essere una firma libera e affamata di verità era davvero rischioso.
È l’Italia a metà strada tra gli anni di piombo e l’inizio della stagione delle stragi di Cosa Nostra, in cui a cadere, oltre alle penne scomode, erano magistrati, uomini delle forze dell’ordine, sindacalisti… Malgrado i rischi e il precariato, quel cronista precario, si direbbe oggi, insiste nei meandri delle organizzazioni malavitose, e porta in superficie, e prende appunti, e unisce i punti, e accompagna i napoletani a conoscere la verità. Nello specifico a segnare la sua condanna a morte, ad appena 26 anni (come affermava Adriana Maestro, presidentessa dell’Associazione Culturale Giancarlo Siani) furono quattromila battute pubblicate sul Mattino del 10 giugno 1985, in cui avanzava l’ipotesi che l’arresto di Valentino Gionta fosse il prezzo pagato dai Nuvoletta per evitare una guerra con il clan di Bardellino. Che un cronista alle prime armi denunciasse i rapporti tra il malaffare e il modo della politica e scoperchiasse le infiltrazioni dei clan sulla ricostruzione di Irpinia era qualcosa che non potevano sopportare, passando pure per infami.
La sera del 23 settembre 1985 si trovava a bordo della sua Citroën Méhari verde con la cappotta di tela nera. Stava tornando a casa, in via Vincenzo Romaniello, nel quartiere napoletano dell’Arenella. Intorno alle 20.50, ai piedi dell’uscio di casa, dieci colpi esplosi da due Beretta 7.65 lo raggiunsero alla testa. I due sicari si dileguarono poi in moto: un delitto in pieno stile mafioso. Siani fu ucciso perché smettesse di parlare. Perché smettesse di scrivere. Perché smettesse di combattere la sua guerra. Una guerra che ha vinto comunque, perché ciò che ha messo nero su bianco ha squarciato quel velo di omertà che c’era allora e in parte ancora oggi.
‘Da grande voglio fare il giornalista’, scriveva Giancarlo su Il lavoro nel Sud (1979). Ma giornalista-giornalista.
Di Maria Francesca Troisi
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