I due giovani pastori
I pastori e gli agricoltori assumono solo immigrati, perché gli italiani certi tipi di lavori non li vogliono più fare. L’isolamento, gli ambienti duri e gli orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri
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I due giovani pastori
I pastori e gli agricoltori assumono solo immigrati, perché gli italiani certi tipi di lavori non li vogliono più fare. L’isolamento, gli ambienti duri e gli orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri
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I due giovani pastori
I pastori e gli agricoltori assumono solo immigrati, perché gli italiani certi tipi di lavori non li vogliono più fare. L’isolamento, gli ambienti duri e gli orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri
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I pastori e gli agricoltori assumono solo immigrati, perché gli italiani certi tipi di lavori non li vogliono più fare. L’isolamento, gli ambienti duri e gli orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri
Lui si chiama Elay Cerra. Ha 18 anni e viene dal Comune di Valdastico in provincia di Vicenza. L’ho incontrato un giorno per caso, nel mio caotico peregrinare. Mi ha colpito perché assieme a lui vi era un ragazzo di colore e insieme tenevano a bada un gregge di pecore. Un fenomeno sempre più diffuso nei pascoli e nelle campagne. Siccome gli italiani non vogliono più fare alcuni lavori, i pastori e gli agricoltori ricorrono agli immigrati. Isolamento, ambienti duri e orari incerti non hanno invogliato i giovani a seguire le orme dei padri. Pensate che in Abruzzo, ancor prima dell’epidemia da Covid, il 90% dei pastori era straniero. Così quel giorno mi sono fermata. Sono scesa dall’auto e ho chiesto quale fosse la loro storia.
Elay Cerra è figlio di un poliziotto, ha origini calabresi. Il nonno faceva il pastore e lui s’è innamorato di questo lavoro. Poi ha preso con sé un senegalese – sveglio, scaltro, in gamba – che corre dietro alle pecore e le fa pascolare sulla retta via. Si chiama Mouhamed, ha 22 anni e fa il pastore dal 2019. Dopo un passato in fabbrica a Milano ha deciso di vivere in mezzo ai monti.
Li ho incontrati un giorno d’inverno, quando fuori fa freddo e loro svernano. La fatica. Il sudore. Il sacrificio. Il freddo. Il gelo. Lavori che rimangono una chimera, una ipotesi assurda nel panorama italiano dove ci siamo riempiti di dottori laureati su Google. L’arte di imparare un mestiere e di fare poi fatica per guadagnarsi la pagnotta è diventata una roba da sfigati in un mondo di strafottenti che campano sulle spalle dei precari. Elay, che sogna un giorno di avere un gregge di mille pecore, si chiama così perché la madre quando era incinta di lui stava leggendo un libro che aveva un protagonista con quel nome. Il padre ha anche provato a fargli cambiare idea: «Figlio mio, ma dove vai? Chi te lo fa fare?».
Ogni giorno Elay e Mouhamed si mettono in cammino. D’inverno vivono su una roulotte senza riscaldamento («Ci si scalda con le coperte»). Sveglia alle 6.30, colazione con latte e biscotti. E poi via, subito al lavoro. Devono controllare se qualche pecora abbia partorito, se ci siano nuovi agnellini. Poi le portano al pascolo. Cucinano a turno e a mezzogiorno mangiano pasta, carne, pane: «Dipende da cosa abbiamo in dispensa». Quindi ripartono, vanno al pascolo, stanno dietro alle loro pecore e le fanno correre. Mettono la pecorella, quella che non ha l’istinto materno, assieme all’agnello e così si abitua, prendendone l’odore. La sera cenano e si fiondano a letto. Niente televisione. Solo il sottofondo della natura, che ultimamente fa a pugni col mondo.
Di Serenella Bettin
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