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Il posto fisso ha perso parte del suo fascino

Cambiare il volto della Pubblica Amministrazione è possibile, c’è bisogno che da carrozzone burocratizzato diventi azienda realmente meritocratica senza appiattire la valutazione.
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Il posto fisso ha perso parte del suo fascino

Cambiare il volto della Pubblica Amministrazione è possibile, c’è bisogno che da carrozzone burocratizzato diventi azienda realmente meritocratica senza appiattire la valutazione.
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Il posto fisso ha perso parte del suo fascino

Cambiare il volto della Pubblica Amministrazione è possibile, c’è bisogno che da carrozzone burocratizzato diventi azienda realmente meritocratica senza appiattire la valutazione.
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Cambiare il volto della Pubblica Amministrazione è possibile, c’è bisogno che da carrozzone burocratizzato diventi azienda realmente meritocratica senza appiattire la valutazione.
Secondo il ministro della Funzione pubblica Renato Brunetta la pubblica amministrazione è tornata a essere attrattiva per i giovani. Sarà. Ma posto che ormai i giovani non si sa più di preciso chi siano, a qualcuno sarà forse venuto un pensiero: se è vero che l’italiano ambisce al posto fisso sin dalla culla – Checco Zalone insegna – quand’è che la Pa ha smesso di piacere a chi è in cerca di un impiego? Per capirlo serve forse chiedersi come mai per un giovane appena laureato lavorare per lo Stato significhi entrare in un carrozzone infernale, con stipendi medio-bassi e senza grandi possibilità di fare carriera. Non granché invitante, come prospettiva. Lo Stato sa davvero farsi valere sui propri dipendenti quanto un imprenditore privato? È in grado di far avanzare i migliori, motivando i peggiori a far meglio? Gli strumenti nei contratti ci sarebbero pure, ma chi controlla il controllore? Un problema che viene da lontano, a parere di chi quei contratti è chiamato a negoziare. Antonio Naddeo è il presidente dell’Aran, l’Agenzia per la rappresentanza negoziale della pubblica amministrazione, e parla di «valutazione appiattita»: per non far torto a nessuno il dirigente valuta tutti allo stesso modo, per cui addio premi per chi pure li meriterebbe. E quando è il capo a dover essere valutato, la storia si ripete. Vi è così il rischio concreto che il migliore inizi a chiedersi se valga ancora la pena di impegnarsi. Se tutto ciò non bastasse, va detto che certe rappresentanze sindacali quella valutazione, nel contratto, neanche la vorrebbero. Da un lato sostengono di tutelare i lavoratori, dall’altro sembrano aver perso contatto con la realtà. Alcuni sindacalisti sono ad esempio arrivati al punto di criticare una maestra che in epoca Covid ha portato i suoi studenti al parco soltanto perché in questo modo faceva fare brutta a tutti i suoi colleghi… Come se ne esce allora? Senza dubbio, col regolare ancora si rischia di far peggio: se un’automobilista nota un cartello di pericolo per la prima volta, sarà attento a moderare la velocità; se di questi cartelli dovesse vederne a decine, smetterà di prestarvi attenzione. Regolare meno sarebbe forse altrettanto rischioso: gestire fondi che appartengono alla collettività richiede infatti un’attenzione particolare. La soluzione è assai complessa, ma parte forse da un semplice passo: un cambio di narrazione della pubblica amministrazione, smettendo di raccontarci che Stato è sempre sinonimo di burocrazia e che pubblico è sempre sinonimo di inefficiente. Dovremmo soprattutto ritrovare il perduto senso dello Stato e creare le premesse perché chi lavora nel pubblico impiego sia orgoglioso dei compiti svolti in settori che il settore privato non potrebbe (del tutto) gestire: istruzione, salute, sicurezza e difesa.   di Luigi Santarelli

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