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La generazione ‘fortunata’ che non conosce il futuro

Dalle speranze conseguenti alla fine dello stato d’emergenza alla minaccia di un conflitto mondiale: il sentore per i giovani di aver perso il concetto di futuro diventa sempre più concreto. 
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La generazione ‘fortunata’ che non conosce il futuro

Dalle speranze conseguenti alla fine dello stato d’emergenza alla minaccia di un conflitto mondiale: il sentore per i giovani di aver perso il concetto di futuro diventa sempre più concreto. 
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La generazione ‘fortunata’ che non conosce il futuro

Dalle speranze conseguenti alla fine dello stato d’emergenza alla minaccia di un conflitto mondiale: il sentore per i giovani di aver perso il concetto di futuro diventa sempre più concreto. 
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Dalle speranze conseguenti alla fine dello stato d’emergenza alla minaccia di un conflitto mondiale: il sentore per i giovani di aver perso il concetto di futuro diventa sempre più concreto. 
Soltanto qualche giorno fa il premier Draghi ha annunciato la fine dello stato d’emergenza dal 31 marzo: addio mascherine, addio triade di colori, addio bollettini sanitari, addio a quella paura che ci ha attanagliati per due anni. Non un “liberi tutti” certo, ma la netta percezione di riuscire finalmente a vedere la luce in fondo al tunnel consapevoli delle conseguenze economiche e sociali di una pandemia che è riuscita a rendere il nostro tempo soltanto un’opinione, senza possibilità di programmare il futuro neanche da qui ad un mese. Per due anni. Lo stato psicologico in cui versano la maggior parte dei ragazzi è al limite dell’ammissibilità. Tutti noi avremmo dovuto rimboccarci le maniche per rimettere a posto i cocci in cui si è ridotto il nostro vivere civile e la nostra percezione delle cose ma anche – e soprattutto- la nostra salute emotiva. La più potente e testarda conseguenza del Covid-19. Soltanto qualche giorno fa si respirava finalmente speranza, seppur dietro a mascherine FFP2. Poi, all’alba di un giorno qualunque di febbraio, ci siamo svegliati con le immagini di bombe piovute sull’Ucraina, a poco più di 2.000 km da noi. Come in un loop senza uscita abbiamo dovuto ri-abbandonare i nostri singoli problemi per concentrarci su quelli della comunità. Perché la morte di ogni singolo civile anche oltre i nostri confini riguarda tutti noi. E questa è forse l’unica lezione che abbiamo imparato. Il mondo ci ha chiesto di ‘armarci’ nuovamente di coraggio e di abnegazione verso il prossimo: via i singoli desideri di rivalsa, via abbracci e baci. È guerra. Ma cosa significa per un giovane il termine guerra, abituato a riconoscere questa parola solo attraverso i libri di scuola? Cosa significa davvero per noi quella maledetta sirena che annuncia una pioggia di missili e bombe? I ‘grandi’ ci hanno cresciuto ricordandoci costantemente la nostra fortuna di esser nati in quest’epoca, dove tutto è a portata di tutti, dove non manca il pane e il latte perché abbiamo burger e poke, dove puoi essere chi vuoi perché possiedi tutti gli strumenti possibili per riuscirci. Noi non potevamo capire ma potevamo ringraziare per quel magico presente che ci era stato dato. Nessuno ha mai obiettato: d’altro canto i libri di storia convergevano con i racconti dei nostri nonni e dei nostri parenti. Eppure, quando ho ascoltato l’altro giorno quella sirena, mi è apparsa un déjà-vu. Quel suono non lo avevo mai davvero ascoltato eppure mi sembrava così familiare. Universalmente riconosciuto come il suono della paura per qualsiasi generazione. La sinestesia che è capace di creare mi ha fatto pensare come la storia e il passato si siano radicate nel nostro Dna, innescando comunioni  spiazzanti capaci di abbattere anche i più cocciuti egoismi. Non è forse questo il senso di ogni guerra: egoismi contro altruismi? Nelle parole dei miei coetanei si leva un’unica cantilena che è Dopo una pandemia non ci meritavamo anche una guerra. Quanto è vero. Partendo dall’assunto che niente può giustificare una guerra, abbiamo però creduto che nel 2022 questa strana parola fosse un concetto arcaico per risolvere le cose. Irrazionale e lontano dai tempi. E ci siamo sbagliati. I giovani hanno perso due anni preziosi di scuola, la vera palestra della vita. Alcuni invece hanno iniziato percorsi universitari proiettati ad un futuro che non era garantito. Altri, hanno perso lavori, occasioni, rivalutato le proprie priorità, temuto di non farcela. Ci siamo sentiti però parte dello stesso esercito, sceso in battaglia contro “il nemico invisibile” del virus, ognuno disposto a fare la sua parte per proteggere i più deboli come sé stesso. “Ce la faremo!”. “Ne usciremo più forti di prima!”. Quanto ci abbiamo creduto. E ora che si ritorna indietro, molto più di quanto noi giovani possiamo fare anche aguzzando ingegno e immaginazione, ci sentiamo di nuovo orfani di futuro. Demotivati nel costruire progetti che non ci è dato perseguire. Quelle parole dei nostri genitori appaiono oggi così sgradevoli e fuori luogo: ci avevate promesso un futuro mentre tutti quanti voi non avevate fatto ancora i conti con il passato.   di Raffaela Mercurio    

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