La Storia smaschera il cinismo dei putiniani
Più passano i giorni, più si chiede agli ucraini di rinunciare a qualcosa per placare lo zar. Discorsi che neanche esisterebbero se solo avessimo memoria della resistenza italiana di 105 anni fa, pilastro della libertà che respiriamo oggi.
| Società
La Storia smaschera il cinismo dei putiniani
Più passano i giorni, più si chiede agli ucraini di rinunciare a qualcosa per placare lo zar. Discorsi che neanche esisterebbero se solo avessimo memoria della resistenza italiana di 105 anni fa, pilastro della libertà che respiriamo oggi.
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La Storia smaschera il cinismo dei putiniani
Più passano i giorni, più si chiede agli ucraini di rinunciare a qualcosa per placare lo zar. Discorsi che neanche esisterebbero se solo avessimo memoria della resistenza italiana di 105 anni fa, pilastro della libertà che respiriamo oggi.
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Più passano i giorni, più si chiede agli ucraini di rinunciare a qualcosa per placare lo zar. Discorsi che neanche esisterebbero se solo avessimo memoria della resistenza italiana di 105 anni fa, pilastro della libertà che respiriamo oggi.
Con il passare delle settimane di guerra, sono sempre più frequenti i dibattiti da bar (purtroppo non di rado anche in diretta tv) di incredibile cinismo e insostenibile leggerezza. Il ragionamento suona più o meno così: «Gli ucraini ci hanno anche un po’ stufato, che cedano qualche pezzo di terra a Putin così lo zar si calma, può cantare vittoria e torniamo tutti a farci gli affari nostri». I più raffinati riescono ad aggiungere qualche contrita riflessione sulle vite umane che verrebbero risparmiate e sulle sofferenze evitate. Cinismo alla massima potenza, come detto, condito da una preoccupante ignoranza storica.
Lasciamo da parte per un attimo l’Ucraina, l’aggressione di Vladimir Putin dello scorso 24 febbraio e torniamo indietro di 105 anni. Ottobre 1917, gli eserciti tedesco e austriaco sfondano il fronte italiano a Caporetto mettendo in crisi l’intero nostro esercito, costretto in una manciata di giorni a una precipitosa e disordinata ritirata prima sul Tagliamento e poi addirittura sul Piave. Decine e decine di chilometri, in una guerra in cui si erano pagati avanzamenti di 50 metri con migliaia di anime. Tanto sul nostro fronte, quanto nel mattatoio delle trincee a Ovest.
L’Italia sembra spacciata, l’Austria – grazie al decisivo apporto in uomini, mezzi e tattiche dei tedeschi – conta di sciamare fino a Venezia e poi a Milano, costringendo il nemico alla resa. È il pensiero che hanno tutti i Paesi in conflitto, nessuno escluso. Anche a Roma, presi dal panico, in pochi credono che l’esercito possa riaversi e resistere.
Flash forward sullo scorso febbraio: il mondo, per quanto inorridito dall’aggressione di Putin, non ha la minima fiducia nelle capacità dell’Ucraina di resistere e la caduta di Kiev viene stimata questione di una settimana. Sappiamo com’è andata e sappiamo anche quanto l’afflusso di armi, mezzi e aiuti da Occidente sia partito di fatto solo quando ci si è resi conto che l’Ucraina non si sarebbe dissolta.
105 anni fa accadde la stessa cosa. Gli alleati (Gran Bretagna, Francia e Stati Uniti) non avrebbero scommesso un penny su di noi, pur consapevoli di dover puntellare l’Italia in qualche modo, per non veder piovere sui propri uomini le divisioni liberate dallo sforzo bellico sul nostro fronte. Assegnarono artiglieria, uomini e materiali, ma non li schierarono in prima linea. La motivazione appare nobile ma fu di assoluto cinismo e pragmatismo: a Parigi e Londra non volevano perdere uomini in una causa considerata persa e invitarono gli italiani a resistere con le proprie forze. Per riconquistare l’onore smarrito a Caporetto, si dirà. In realtà per capire se ne valesse la pena.
L’Italia risorgerà sul Piave e il nostro esercito – finalmente liberato dalle suicide tattiche degli attacchi frontali a ondate (a onor del vero specialità non solo del generalissimo Cadorna, ma di tutti gli alti comandi di quella guerra disumana e disgraziata) – comincerà a dare splendida prova di sé. Resisterà all’assalto austriaco sul Piave, lo respingerà ancora nel giugno del 1918, quando il monte Grappa assurgerà a una mitologia colpevolmente dimenticata dagli italiani di oggi. Nella battaglia del Solstizio (giugno 1918, appunto) le divisioni alleate sarebbero finalmente entrate in linea e ci avrebbero dato una mano, ma nell’inverno del 1917 sul sacro Piave avevamo resistito da soli.
Il Paese era invaso, il Veneto in buona parte in mano austriaca, cosa avrebbero risposto i nostri nonni e bisnonni a chi gli avesse suggerito di cedere qualcosa all’Austria (ma cosa: Venezia, tutto il Garda, Padova?) pur di placare l’imperatore e ottenere la pace? Se la domanda oggi appare retorica è perché ci furono il Piave e il Grappa.
I cittadini – per non parlare di politici, opinion maker, etc. – di un Paese che avesse coscienza di sé e della propria storia non oserebbero neppure pensare di suggerire oggi agli ucraini di mutilarsi per placare la fame dello zar. Il che non significa non riconoscere le esigenze di realismo della diplomazia, ma non ridurre tutto a un volgare mercato sulla pelle altrui.
27 anni dopo il Piave, quando Charles De Gaulle mandò le sue divisioni a occupare la Val D’Aosta, Ventimiglia e le province di Imperia e Savona, trovò le strade sbarrate non solo della resistenza della popolazione italiana ma anche dal No del presidente degli Stati Uniti Harry Truman. Ricordino (studino) anche questo i cantori del putinismo all’italiana.
Di Fulvio Giuliani
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