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trapper aggrediscono nero

L’aggressione dei due trapper che rappresentano il nulla

Da sempre la musica rappresenta il mondo in cambiamento. I due trapper che hanno aggredito un ragazzo nero, minacciandolo di morte, non rappresentano nulla.

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L’aggressione dei due trapper che rappresentano il nulla

Da sempre la musica rappresenta il mondo in cambiamento. I due trapper che hanno aggredito un ragazzo nero, minacciandolo di morte, non rappresentano nulla.

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L’aggressione dei due trapper che rappresentano il nulla

Da sempre la musica rappresenta il mondo in cambiamento. I due trapper che hanno aggredito un ragazzo nero, minacciandolo di morte, non rappresentano nulla.

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Da sempre la musica rappresenta il mondo in cambiamento. I due trapper che hanno aggredito un ragazzo nero, minacciandolo di morte, non rappresentano nulla.

Nulla fa più paura del nulla, dell’affacciarsi su un pozzo senza fondo, su un nero che fa rima con vuoto e assenza totale di pensiero e ragionamento. È  ciò che abbiamo provato nel leggere le farneticanti dichiarazioni che hanno accompagnato la rapina a mano armata per cui due sedicenti ‘trapper’ del milanese sono finiti in manette.

Non li nomineremo, perché era esattamente l’unica cosa che costoro cercavano, nel pianificare e realizzare certe ‘imprese’. Uno sfoggio di inutile e rivoltante violenza che anche limitandosi alle loro canzoni non può dirsi solo verbale. Perché l’ansia di usare i social e la propria (presunta) musica come una clava da abbattere sulla testa del nemico – il ‘nero’, il ‘diverso’ – denuncia schemi mentali impressionanti. Come scritto in apertura, è un affacciarsi sul niente, un essere costretti a guardare negli occhi un nichilismo spaventoso nel suo essere fine a se stesso.

La musica non è mai stata solo un coro di chiesa, anzi. Da che mondo è mondo e le società seguono le loro evoluzioni, artisti e ‘star’ hanno interpretato, e a volte anticipato, vere rivoluzioni del costume e del sentire comune. Ricordavamo solo poche settimane fa quello che significò la musica per la turbolenta, fantasiosa e prolifica stagione della contestazione degli anni Sessanta. Vera e propria colonna sonora di un nuovo modo di intendere la vita, velleitario ed effimero quanto si vuole, ma accompagnata da una musica che ci parla ancora oggi e – per chi avesse voglia di studiare, ripercorrere e capire – resta la fotografia di un’epoca a cui tutti dobbiamo qualcosa.

Questi loschi figuri travestiti da sedicenti cantanti, interessati solo a farsi un po’ di pubblicità a basso costo sulla pelle degli altri, non rappresentano nulla. Neppure se stessi. Sono solo il più severo avviso sui rischi di un’epoca che accetti senza ribellarsi le parole per le parole, l’esagerazione per l’esagerazione, la violenza per la violenza. Un vortice che si autoalimenta sempre più, in particolar modo nelle zone più disagiate e periferiche (non solo in termini fisici, ma soprattutto di emarginazione culturale) delle nostre città.

Senza generalizzazioni, per loro natura errate, è un fatto che certa musica e certi temi siano una triste scimmiottatura dei prodotti musicali delle suburre più violente degli Stati Uniti d’America o delle banlieue francesi. Fenomeni che stanno progressivamente attecchendo nel nostro Paese. In questo, forse, sta l’unica e paradossale utilità di certi personaggi. Ci ricordano, infatti, il pericolo che corriamo a lasciar andare alla deriva un pezzo di un’intera generazione. Non è moralismo, non è uno sterile richiamo ai tempi andati – invariabilmente migliori di quelli presenti o sciocchezze simili – è la necessità di prendere atto di degenerazioni di cui la musica è solo uno specchio. Al più uno strumento e un manifesto.

Nessuna musica, nessun genere – anche se apparentemente incomprensibili per chi non sia più un ragazzo – hanno alcuna colpa in sé. C’è sempre qualcosa da salvare o almeno da valutare con attenzione, ciò che resta inaccettabile è pretendere di mascherare in musica e versi la più meschina delle violenze.

 

Di Fulvio Giuliani

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