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Laureati pochi, meno ancora con le competenze necessarie

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Non soltanto infatti l’Italia è al penultimo posto fra gli Stati Ue per numero di laureati under 35 ma di questi solo il 67,5% trova lavoro dopo tre anni dalla laurea

Laureati pochi, meno ancora con le competenze necessarie

Non soltanto infatti l’Italia è al penultimo posto fra gli Stati Ue per numero di laureati under 35 ma di questi solo il 67,5% trova lavoro dopo tre anni dalla laurea

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Laureati pochi, meno ancora con le competenze necessarie

Non soltanto infatti l’Italia è al penultimo posto fra gli Stati Ue per numero di laureati under 35 ma di questi solo il 67,5% trova lavoro dopo tre anni dalla laurea

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La fotografia migliore dell’Italia che non decolla è il grande paradosso che sta dietro al rapporto fra istruzione e lavoro nel Bel Paese. Non soltanto infatti l’Italia è al penultimo posto fra gli Stati Ue per numero di laureati under 35 (appena il 26,7% contro una media del 41%), ma di questi – secondo Eurostat – solo il 67,5% trova lavoro dopo tre anni dalla laurea (in cima alla classifica ci sono Malta, Paesi Bassi e Germania, tutti con un tasso superiore al 90%).

Come se non bastasse, stando all’ultimo rapporto Almalaurea, il 30% di coloro che ce la fanno non utilizza tutte le competenze acquisite all’università e svolge un impiego per cui la laurea nemmeno serve. Un divario che scende solo parzialmente dopo 5 anni dalla laurea e blocca la crescita del Paese, perché se è vero che il numero degli occupati post laurea è leggermente cresciuto, permangono ‘buchi’ per adesso molto difficili da colmare.

In termini economici si chiama skill mismatch, ovvero il disallineamento fra le competenze richieste e quelle effettivamente sul mercato: 4 aziende su 10 segnalano lacune significative tra le competenze dei propri dipendenti e quelle di cui avrebbero bisogno per le necessità operative, oltre a forti difficoltà nel reperire profili adeguati alle posizioni vacanti. Insomma, c’è un boom di laureati in discipline letterarie, umanistiche, di arte e design, linguistiche, politiche, sociali e di comunicazione, economiche; ma mancano i dottori in quegli indirizzi che servirebbero alle imprese. Secondo l’Ocse, in Italia appena il 28% è laureato in discipline Stem e il dato scende ancora fra le donne. I laureati italiani fanno fatica a inserirsi nel mercato del lavoro. Secondo l’Fsa Maturity Index, che misura l’indice di maturità dei Paesi, l’Italia è al 34esimo posto nel mondo (su 75 censiti) dietro Cile e Malaysia, con oltre 10 milioni di lavoratori male assortiti.

Le cause? Un sistema di istruzione senza innovazione e scarsissima formazione continua: «Settore emblematico per rappresentare il fenomeno è quello delle tecnologie dell’informazione e della comunicazione (Ict), il cui rapido sviluppo richiede un aggiornamento continuo delle competenze e delle tecnologie in uso nelle aziende» sottolineano i report ufficiali. Un dato su tutti: soltanto il 46% degli italiani ha competenze digitali di base e il nostro Paese è ultimo nell’Ue per laureati in discipline Ict. A questo si aggiungono gli stipendi fermi da 30 anni: ciò porta molti giovani laureati – soprattutto quelli migliori – a scegliere l’estero, dove hanno prospettive di crescita, stabilità e un tenore di vita più alto.

Ma quanto costa tutto questo in termini concreti all’economia del Paese? Secondo l’Ocse, lo skill mismatch fa perdere all’Italia 2,5 punti di Pil, circa 44 miliardi di euro. A soffrire di più sono le Pmi, vera spina dorsale del sistema produttivo italiano, che spesso non hanno le risorse da investire in innovazione, cybersecurity e intelligenza artificiale: nel 2024 meno di un quarto (il 22,3%) delle microimprese e appena la metà di quelle medio-piccole ha potuto farlo.

Le Its Academy, i corsi di specializzazione post diploma, stanno dando una grande mano in questo senso, ma è un rincorrere le esigenze di un mercato del lavoro sempre in evoluzione, quando invece sarebbe necessario anticiparle, per garantire una transizione più fluida dal mondo dell’istruzione a quello del lavoro, oltreché provare a trattenere i giovani. Altrimenti il rischio concreto è quello di ritrovarsi a breve in un Paese senza più prospettive. Perché accanto a tutto questo si registra la scomparsa – lenta ma inesorabile – di tutti quegli antichi mestieri che si tramandavano a livello familiare: vetrai, falegnami, restauratori, tappezzieri, corniciai, calzolai, orologiai sono sempre più rari. Lavori che nessuno vuole più fare e per la cui sopravvivenza si battono in pochi.

di Emanuele Lombardini

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