L’importanza del 9 marzo
| Società
L’8 marzo resta un’ottima “scusa” per fare il quadro della situazione donne e diritti in Italia. A cominciare dal problema più grande: il lavoro

L’importanza del 9 marzo
L’8 marzo resta un’ottima “scusa” per fare il quadro della situazione donne e diritti in Italia. A cominciare dal problema più grande: il lavoro
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L’importanza del 9 marzo
L’8 marzo resta un’ottima “scusa” per fare il quadro della situazione donne e diritti in Italia. A cominciare dal problema più grande: il lavoro
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In un oceano di diritti negati, l’8 marzo resta un’ottima “scusa” per continuare a parlare di obiettivi raggiunti e futuri. Senza volerci addentrare negli abissi in cui sono sprofondati alcuni Paesi come l’Iran e l’Afghanistan – argomento di cui dibattiamo con una certa frequenza, convinti che l’8 marzo dovrebbe essere ogni giorno – oggi intendiamo affrontare il problema nel “mare nostrum”, con una dovuta premessa: l’essere nate in Italia rappresenta una fortuna incredibile e inconfutabile, anche se qualcuno ogni tanto prova a convincerci del contrario.
Ci bastino i volti delle tante donne e bambine che abbiamo imparato a conoscere in questi giorni, vittime del tragico naufragio di Cutro: un viaggio che avrebbe dovuto regalare un sogno come quello di poter studiare, lavorare, vivere in un luogo sicuro e rispettoso dei diritti di tutte e tutti.
Detto ciò, anche qui abbiamo dei problemi che non si possono non affrontare. Il lavoro è forse quello più urgente. Tutti i rapporti di settore ci dicono che sei laureati su dieci sono donne e che queste finiscono gli studi più in fretta e con voti migliori. Eppure sono proprio loro a faticare maggiormente nel trovare un impiego e – a parità di ruolo nel lavoro dipendente – continuano a guadagnare meno dei loro colleghi maschi. Se qualcosa sta lentamente cambiando ai livelli più alti (la neopresidente della Corte di Cassazione, Margherita Cassano, ne è una dimostrazione), la maggior parte deve ancora fare i conti con questa insopportabile ingiustizia.
C’entrano quei retaggi culturali duri a morire per cui serve affidarsi solo allo scorrere del tempo perché le cose cambino, ma di sicuro pesa moltissimo anche il preconcetto secondo cui – sul posto di lavoro – le donne sarebbero meno disponibili degli uomini. Per ragioni apparentemente ovvie, dato che sono prevalentemente ancora loro “a prendersi cura di”: la famiglia, la casa, l’anziano genitore. Il ventaglio delle opzioni disponibili è piuttosto limitato, si può chiedere un aiuto alla baby sitter o alla badante (guarda caso professioni generalmente ad appannaggio femminile) oppure, nel tentativo di far quadrare i conti a fine mese, provare ad arrangiarsi come si può. Anche a costo di dire qualche “no” al proprio datore di lavoro.
Diversamente da quello che accade all’estero, a cominciare dall’esempio “di scuola” della Francia, l’offerta di servizi alle famiglie è ancora molto risicata, quando invece questi aiuti permetterebbero alle donne di riuscire a tenere assieme le tessere del puzzle. Così molte semplicemente non lavorano.
L’ultimo dato emerso dalle indagini Eurostat sul tasso di occupazione fra le donne nella fascia di età 20-49 anni fa davvero impressione: con il 55,2% di occupate l’Italia è ultima in classifica (18 punti in meno rispetto alla media Ue), preceduta pure dalla Grecia. Fa ancora più specie constatare come nel resto d’Europa, dove i servizi per la famiglia sono più accessibili, le donne con tre figli lavorino più di quelle italiane con un unico bambino.
Quanto al tema più generale della bassa natalità italiana, il fenomeno abbraccia queste problematiche ma è anche “figlio” dell’evoluzione sociale, del benessere, del mutato ordine di priorità per le donne (e gli uomini). Alcune soluzioni per uscire da questa impasse sono chiare e le abbiamo indicate, non abbiamo più scuse. Se non quella dell’8 marzo.
di Ilaria Cuzzolin
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