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L’ombra della Seconda guerra mondiale sui progetti eolici offshore

In Germania i vecchi ordigni bellici sui fondi marini rendono più costosi i nuovi progetti.
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L’ombra della Seconda guerra mondiale sui progetti eolici offshore

In Germania i vecchi ordigni bellici sui fondi marini rendono più costosi i nuovi progetti.
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L’ombra della Seconda guerra mondiale sui progetti eolici offshore

In Germania i vecchi ordigni bellici sui fondi marini rendono più costosi i nuovi progetti.
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In Germania i vecchi ordigni bellici sui fondi marini rendono più costosi i nuovi progetti.
Berlino – Non sono soltanto le lunghezze burocratiche o i tentennamenti dei presidenti dei Länder a rallentare lo sviluppo dei parchi eolici in Germania, punto dolente della transizione tedesca che oggi viene al pettine nella fase acuta della crisi energetica. Almeno per quello che riguarda i parchi offshore, in mare aperto, il problema viene da lontano. Precisamente dalla fine della Seconda guerra mondiale. Sui fondali delle acque tedesche ci sono ancora 1,6 milioni di tonnellate di ordigni convenzionali e altre 5mila tonnellate di ordigni chimici. Bombe, mine, granate e siluri scaricati nel Mare del Nord e nel Mar Baltico trasformati in discariche di munizioni al termine del conflitto. Un problema di cui governo e Länder non si erano preoccupati per lunghi decenni, ma tornato d’attualità nel momento in cui i due mari diventano strategici per la sicurezza energetica. La rimozione degli ordigni esplosivi è operazione che costa molto tempo e tanto denaro e non riguarda solo i gestori di parchi eolici, ma coinvolge anche quelli delle reti. Nel 2015 fu necessario far esplodere due mine marine vicino all’isola di Borkum, nel Mare del Nord, per posare un cavo di trasmissione dell’energia eolica offshore alla rete elettrica sulla terraferma. Si trattava di collegare l’impianto di Riffgat, nella cui area erano stati trovati 1.400 oggetti metallici che dovevano essere esaminati. Non tutti erano pericolosi, alcuni erano semplicemente rottami. Tuttavia, compagnie speciali con 60 esperti erano state in servizio giorno e notte per 18 mesi. La ricerca e lo sgombero costarono 57 milioni di euro, denaro che il gestore di rete non aveva preventivato ma che fu successivamente autorizzato a destinare al progetto e quindi a trasferire alle tariffe di rete. Alla fine fu il consumatore finale a pagare. Da allora l’industria ha sviluppato strategie speciali per la ricerca di ordigni esplosivi, non solo tecniche. Come quelle della ricerca storica, svolta ovviamente negli archivi tedeschi, ma anche in quelli russi e inglesi, dove si ritrovano tracce delle incursioni aeree e navali. Prima si procedeva al buio, oggi ci si muove con mappe specifiche, anche se le armi non sempre sono dove ufficialmente dovrebbero essere: molte, ad esempio, vennero gettate in mare durante il tragitto verso il punto di consegna. Solo dopo aver ottenuto informazioni sufficienti si parte per le ricerche sul sito, con il supporto di magnetometri in grado di rivelare tutte le parti metalliche, sonar a scansione laterale per osservare la superficie, quindi sommozzatori o robot specializzati per scandagliare con meticolosità i fondali dei mari. I costi possono essere enormi: dipende da quanti ordigni si trovano, dalla loro grandezza (alcuni sono colossi come bombe aeree del peso di diverse centinaia di chilogrammi), dalla possibilità di riportarli a terra o dalla necessità di dover farli esplodere in acqua. Quasi otto decenni dopo la fine della guerra, le sue conseguenze complicano ancora la vita della Germania, specie ora che un’altra guerra sta spingendo il governo tedesco a potenziare la riserva eolica offshore con progetti che coinvolgono come partner gli altri Paesi rivieraschi. Di Pierluigi Mennitti

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