A partire dall’inizio del nuovo secolo si è dato inizio a un pernicioso filone di informazione mediatica, di tipo distorto e parossistico, nell’ambito della cronaca nera. Spesso nella storia, come del resto nella vita delle persone, c’è uno spartiacque, un dies a quo: in questo caso è stato costituito dal terrificante figlicidio di Cogne nel 2002. È allora che si è dato il via a una sorta di spettacolo dell’orrore, senza rispetto né per la vittima né per i congiunti. Esperti, tuttologi, pseudo investigatori e anche criminologi (o sedicenti tali) hanno iniziato a occupare (spesso in pianta stabile) i salotti televisivi, a volte incautamente in onda in contemporanea, tanto da suscitare il legittimo sospetto di un fenomeno di bilocazione (notoriamente di prerogativa soltanto ultraterrena). Da quel momento non c’è stato delitto – o anche incidente, catastrofe e calamità naturale – che non abbia visto scatenarsi una frenetica corsa allo scoop dell’orrore, con ressa di inviati e reporter davanti alle case dei familiari, nei pressi degli ospedali e finanche degli obitori.
Riportare i fatti che avvengono è una nobile e antica professione. Ed è anche un diritto-dovere istituzionale e ordinamentale per il quale generazioni di giornalisti hanno lottato e continuano a lottare in quei regimi che non lo consentono, rischiando la vita e a volte perdendola o riportando severe conseguenze per la loro esistenza. Tuttavia, in una logica di doveroso contemperamento di interessi contrapposti, è opportuno preservare il massimo rispetto per una vita che viene soppressa, spesso nel fiore degli anni e in modo brutale.
Conseguentemente è doveroso anche il rispetto dei congiunti della vittima che, nel momento di massima afflizione causata dalla ferale notizia, hanno il sacrosanto diritto alla loro riservatezza e di non essere molestati dalla più bolsa e incongrua domanda da parte dell’incauto cronista, che chiede loro che cosa stiano provando. Come si fa a formulare – o soltanto a concepire – una domanda del genere? In un recentissimo caso tragico, i reporter sono addirittura penetrati (chiaramente con il consenso dei dimoranti) nella camera da letto dei genitori di una giovane vittima! E qui si apre un capitolo ancora più doloroso. Dobbiamo purtroppo constatare che talvolta – in omaggio a quello che il grande Andy Warhol definì il «quarto d’ora di celebrità» che ognuno cerca nella vita – non si sottraggono a questo sciacallaggio ‘informativo’ neanche i più stretti familiari della vittima. Sulla scia di tale parossismo, si alimenta a dismisura questa detestabile e distorta forma di giornalismo. Con buona pace del diritto-dovere di cronaca e in ossequio a uno sconcio e becero voyeurismo mediatico.
di Antonio Leggiero
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