Non sparate sui social
Non sparate sui social
Non sparate sui social
Ormai quasi non ci facciamo più caso: l’abitudine a trovare nei social il perfetto capro espiatorio è ormai più che radicata. Del resto, per loro stessa natura sembrano fatti apposta per tirarsi addosso pessimi giudizi, l’idea che siano dei veri e propri corruttori della morale, dei sentimenti e persino della grammatica. Da anni fior di accademici sottolineano il nefasto influsso che dall’era remota di Facebook l’attività social avrebbe esercitato sulla qualità dell’uso della lingua italiana. Scritta e parlata.
Le prove a carico, grosso modo, sono sempre le stesse: si è portati a scrivere in modo sincopato, ‘arricchendo’ i periodi con abbreviazioni e crasi talvolta da brivido, se non direttamente con i famigerati emoticon. Alcuni social – si pensi a Twitter (ei fu) – avrebbero ridotto l’abitudine e a lungo andare la capacità degli italiani di articolare in forma scritta e orale dei pensieri complessi, evoluti e (perché no?) eleganti. Più o meno tutti usiamo i social ogni giorno: sono rischi ben conosciuti e sperimentati ma proprio l’esperienza di ciascuno di noi finisce per smentire questo atteggiamento catastrofista, se non direttamente apocalittico, sul futuro della nostra amata lingua.
Senza metterla giù troppo dura, se uno sa scrivere scrive in italiano corretto anche su Instagram. Aggiungeremmo: non ci pensa neppure a sacrificare la grammatica e la sintassi in ‘ossequio’ alla moda del social di tendenza. Al contrario, in tantissimi ne fanno un punto d’onore di scrivere in un certo modo, riuscendo ad adattarsi ai diversi contesti. Per capirci, Twitter (X) o il neonato Thread non sono Instagram. TikTok non sarà mai LinkedIn e così via. Proprio la capacità di gestire ambienti diversi e linguaggi differenti tutela il valore e la bellezza dell’italiano.
Il problema vero è che molti arrivano all’età adulta senza sapere scrivere e leggendo a fatica testi che superano la complessità della classifica del campionato di calcio. A far danni non sono i social ma una scuola in cui si è smesso di costruire la piramide del sapere da una base sufficientemente larga e affidabile. Poi ce la prendiamo con Mark Zuckerberg perché tanto non ci risponderà ed è sicuramente più facile che andare a chieder conto del loro lavoro a troppi dei professori dei nostri figli. Finiamola anche con la storia dell’“Ai miei tempi”. Noi stessi, che pure abbiamo appena richiamato l’esigenza di una scuola più competitiva nel fornire le basi del sapere, ricordiamo bene quando interi pezzi di questo Paese erano analfabeti sostanziali o funzionali. Quando era normale assistere allo scempio della lingua italiana ascoltando calciatori o ciclisti. Scene persino tenere e che ci riportano indietro nel tempo, ma che testimoniavano una spaccatura fra l’Italia che studiava e quella che non studiava o non poteva semplicemente farlo. Una faglia che oggi grazie al cielo si è chiusa.
Certo, se poi adesso studiamo meno e male prendersela con i social meriterebbe uno di quegli emoticon che tanto piacciono. Non il più gentile.
di Fulvio GiulianiLa Ragione è anche su WhatsApp. Entra nel nostro canale per non perderti nulla!
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