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Parole

Più parole, più libertà

Dice Gustavo Zagrebelsky: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia”

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Dice Gustavo Zagrebelsky: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia”

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Dice Gustavo Zagrebelsky: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia”

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Dice Gustavo Zagrebelsky: “Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia”

Dice il poeta greco Ghiannis Ritsos: «Le parole sono come prostitute che tutti usano, e poi tocca al poeta restituire loro una verginità». Così invece Gustavo Zagrebelsky: «Il numero di parole conosciute e usate è direttamente proporzionale al grado di sviluppo della democrazia. Poche parole e poche idee, poca democrazia; più sono le parole che si conoscono, più ricca è la discussione politica e, con essa, la vita democratica».

Nel suo libro “Sulla lingua del tempo presente”, Zagrebelsky elenca i punti che ritiene fondanti dell’etica democratica. Etica che si sostanzia di parole poi declinate in azioni, perché sono le parole a formare il pensiero, non viceversa: più parole, più pensiero. La mancanza di parole (alias, pensiero) favorisce la violenza. In alcuni casi, una violenza esercitata anche contro sé stessi, che altro non è se non l’incapacità – con le parole – di chiedere aiuto. Nelle scienze cognitive, tutto questo ha un nome: ipocognizione, un concetto che deriva dagli studi antropologici degli anni Cinquanta di Bob Levy. Lo psichiatra americano scoprì infatti che i tahitiani avevano le parole per indicare il dolore fisico ma non il malessere psichico: una lingua tagliata che favoriva il suicidio come soluzione.

Nel suo unico libro pubblicato in vita, il “Tractatus logico-philosophicus”, il filosofo austriaco Ludwig Wittgenstein sostenne che la caduta del linguaggio è speculare alla caduta dell’uomo. In “1984” di George Orwell l’intervento sul linguaggio arriva a creare una neolingua che, riducendo il numero delle parole, consente il controllo totale della società. Tanto più alto è quindi il numero delle parole possedute, tanto più alto è il livello di democrazia in una società, con la costante attenzione alla gabbia delle categorie. Un esempio calzante in questo tempo segnato dalla guerra di Israele contro tutti (il mondo che sta attorno a Israele) è l’archivio semantico antiebraico rispolverato per ridare voce a un antisemitismo mai sopito. Grande è infatti la confusione sotto il cielo di Israele, dell’ebraismo e di Netanyahu. Contemporaneamente, c’è una parola spesa da chi si contende quella terra che va dal fiume al mare: “distruzione”. Cioè il reciproco obbiettivo della distruzione come “soluzione finale”.

In questi complicati e violentissimi anni Venti del Terzo millennio, in cui la tecnologia ha partorito anche l’intelligenza artificiale, le parole sono diminuite: ridotte all’essenziale. Una recente ricerca ha dimostrato come l’evoluzione digitale sia speculare all’involuzione lessicale. L’interconnessione con la Rete necessita di poche parole, per altro quasi tutte inglesi perché nate dal mondo commerciale. Aggettivi e avverbi non servono. Se un tempo bastavano 500 parole inglesi per girare il mondo, oggi bastano poche decine di parole ‘digitali’ per girare in Rete. In buona sostanza, la tecnologia 2.0 ha creato una neolingua. Tutto questo potrebbe indurre a qualunquistiche nostalgie rassicuranti sul piano della percezione di sé («Il mio passato è migliore del tuo presente»): una trappola in realtà, perché è un atteggiamento di chiusura, non di apertura.

Vent’anni fa intervistai Renato Vallanzasca («Non un criminale, ‘il’ criminale», ipse dixit di sé) nel carcere di Opera. Quando gli chiesi quale fosse la cosa che gli mancava di più, rispose «Le parole». Nel senso che «in galera ne bastano davvero poche. E alla fine, anche tu perdi quelle che avevi».

di Pino Casamassima

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