Drin, driin, driiin. «Sì, pronto». «Buongiorno, stiamo conducendo un sondaggio sulle abitudini degli italiani nel periodo prenatalizio. Cosa le dà più fastidio?». Non occorre pensarci, la risposta è immediata: «L’ostentazione sui social network dei doni ricevuti». Ormai tutto quello che si riceve in regalo viene pubblicato con relativa fotografia e doveroso messaggio di ringraziamento, meglio se seguito da numerose emoticon di sorpresa e giubilo.
Da pensiero garbato e di cortesia si è trasformato in una esibizione di presunta grandeur. La consegna col corriere, l’apertura solitaria, la standardizzazione del gesto: il dono non è più espressione di affetto incondizionato ma si è trasformato in strumento per dare dimostrazione di potere da parte di chi lo invia e di considerazione per chi lo riceve. Spesso si fanno i regali sperando di vederli poi pubblicati come post e con relativa dedica di ringraziamento.
Ma la fenomenologia del Social Christmas raggiunge l’apice proprio nella giornata del 25 dicembre, quando i doni sono già stati scartati e non c’è più nessuno da ringraziare pubblicamente. Prende allora il via una gara di velocità per spammare l’intera rubrica telefonica con meme di buon augurio. Pensiero sempre immancabilmente esteso anche alla famiglia.
Cambiano gli strumenti, si risparmia sulla carta dei biglietti di auguri ma le dinamiche psicologiche del cesto di Natale più grosso rimangono immutate nel tempo. Apparire vuol dire esserci e la parola chiave diventa “condividere” per ricercare l’altrui approvazione. Mostrare per dimostrare, insomma.
Da sempre l’uomo, in quanto essere sociale, ha avuto bisogno di essere accettato, amato e stimato. Si è passati dai quindici minuti di notorietà televisiva ai mille like sotto un post. Dietro il desiderio di apparire, la psicologia concorda nel ritenere che si vogliano nascondere profonda insicurezza, solitudine e mancanza di fiducia nelle proprie capacità. Si finisce così per perdere la propria individualità a scapito di un’immagine fasulla e distorta.
Ma chi tra noi non è un po’ narcisista? Quale palcoscenico migliore dei social network per mettere allora in scena la rappresentazione di noi stessi; non di chi siamo ma di chi vorremmo essere. «Continuiamo a bere del pessimo vino preoccupati che i calici siano di cristallo»: le parole dell’autore televisivo Mirco Stefanon mettono a fuoco quanto l’apparire abbia una valenza di gran lunga maggiore rispetto all’essere. È sempre stato così dalla notte dei tempi.
Certo, oggi è meno faticoso rendersi piacenti: è inutile pensare frasi a effetto o dediche stravaganti, basta un click e il mondo saprà cosa abbiamo regalato e a chi. Nella cerchia della propria rete social, però, non bisogna essere i primi a farlo: è alto il pericolo che qualcun altro, con ancora maggiore ostentazione e necessità di compiacimento, ci superi in dimensioni e valore. E, naturalmente, in like.
di Stefano Caliciuri
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