Era lo spauracchio di tutti gli studenti, quello di cui non a caso cantava Antonello Venditti descrivendo le «notti di lacrime e preghiere». L’esame di Maturità però da tempo non è più quel mostro terribile che sembrava a chi le scuole le ha terminate da qualche anno o decennio.
Il tema è tornato al centro del dibattito per la proposta di tornare o meno alle prove scritte, dopo quasi due anni di pandemia. C’è chi spinge fortemente perché quest’anno si reintroduca la prassi che fino all’emergenza Covid affiancava gli scritti alla prova orale. Tra gli altri, lo psichiatra Crepet sottolinea come a suo avviso questo sia necessario perché «i ragazzi devono imparare a soffrire».
Ora, sappiamo e abbiamo già più volte scritto come la prova finale della scuola superiore sia diventata quasi una farsa, nel senso che l’esito e la promozione sono praticamente scontati. Andrebbe piuttosto ripensato il meccanismo, se vogliamo tornare a considerare la Maturità uno scoglio e non semplicemente l’ultima tappa di un percorso.
Poco cambierebbe reintrodurre lo scritto, tanto nessuno boccia. Certo, sarebbe un modo per obbligare i ragazzi a prepararsi di più e quindi per mettersi alla prova, imparando ad affrontare gli ostacoli. Dover soffrire è però cosa ben diversa.
Tra didattica a distanza, mesi chiusi in casa e impossibilità di socializzare di persona, i ragazzi hanno già provato sulla loro pelle il senso di frustrazione, affrontandolo in molti casi meglio degli adulti. Non commettiamo l’errore di sottovalutarli.
di Annalisa Grandi
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