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Emma Ruzzon

Una lettera a Emma

Il toccante discorso di Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico di Padova. Ai giovani mancanogli adulti che parlino di sogni
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Una lettera a Emma

Il toccante discorso di Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico di Padova. Ai giovani mancanogli adulti che parlino di sogni
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Il toccante discorso di Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico di Padova. Ai giovani mancanogli adulti che parlino di sogni
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Il toccante discorso di Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico di Padova. Ai giovani mancanogli adulti che parlino di sogni
L’intervento della studentessa Emma Ruzzon all’inaugurazione dell’anno accademico di Padova ha fatto il giro d’Italia. Al suo J’accuse contro l’eccessiva competizione in ambito universitario e ai rischi a cui si esporrebbero così i ragazzi, dedichiamo ampio spazio oggi su La Ragione. Qui, vorrei idealmente rivolgermi a Emma con qualche personale ricordo di famiglia. Nella Napoli in cui sarei cresciuto decenni dopo, mio nonno era avvocato, fra i tanti suoi fratelli c’erano altri laureati in medicina o giurisprudenza. Le ragazze non studiavano, non era previsto. Studiavano da moglie, mamma, zia, pur essendo alcune di loro dei veri fenomeni anche di intraprendenza imprenditoriale. Non certo una situazione di marginalità o degrado, eppure i ragazzi che non avevano avuto voglia di studiare semplicemente non avevano strade. Un mio prozio, Pio, emigrò in America negli anni ‘20 e ricordo quando trovai il suo nome, la data del suo sbarco e il nome del transatlantico che l’aveva portato a New York, nei registri di Ellis Island. Un altro, Antonino, aveva scelto l’esercito e l’infatuazione per i sogni dell’Italia “imperiale” in Africa, per finire prigioniero degli inglesi in India e poi emigrato in Canada. Dopo la guerra, qui non aveva sentito di poter trovare nulla. Mio padre, ingegnere, è stato un colletto bianco emigrato a Milano, quando non si affittavano case ai terroni. Lui era un privilegiato, laureato e professionista, in un’Italia in cui per telefonare da Milano a Napoli dovevi andare in stazione centrale alle cabine dedicate e metterti in fila. Non esisteva la “teleselezione”. Oggi potrà apparire una curiosità incredibile, ma la possibilità di chiamare qualsiasi numero, in qualsiasi angolo del Paese, arrivò nel 1970. Vogliamo parlare di competizione, pressioni psicologiche, differenze sociali, cara Emma? Lo so che buona parte degli adulti, per il terrore di apparire semplicemente dei “Boomer“, sono pronti a darti ragione su tutto, in realtà infischiandosene delle tue parole e dei tuoi allarmi e pronti a demolirli in privato. Credo che il grande rischio per te, i miei figli, i nostri ragazzi non sia proprio la supposta super competizione. In Italia abbiamo forse gli studi meno competitivi di tutto il mondo avanzato e produciamo molti meno laureati e tecnici specializzati – tanto per cominciare – di quanti ce ne servirebbero. Il vero terrore da provare nei vostri confronti è che quasi più nessuno fra noi “grandi” vi parli con trasporto di sogni, di bellezza, di una vita da godere giorno dopo giorno facendo qualcosa che vi faccia sentire protagonisti, realizzati. Perché no, divertiti. Affamati di gioia. Dovremmo parlare di più anche delle fatiche di una volta, non di noi cresciuti nella bambagia di un Paese ricco, opulento e annoiato, ma di chi quel Paese lo ha costruito compiendo un miracolo. Di Fulvio Giuliani

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