Una vita, una squadra
Gelo. È quanto provato in quei terribili secondi di ieri, durante la partita fra Danimarca e Finlandia agli Europei di calcio. Vedere Christian Eriksen accasciarsi in quel modo, come un robot improvvisamente privato di energia. Intuire la frenesia e la disperazione intorno a lui, i soccorsi salva vita a un ragazzo, un atleta nel fiore degli anni.
Una vita, una squadra
Gelo. È quanto provato in quei terribili secondi di ieri, durante la partita fra Danimarca e Finlandia agli Europei di calcio. Vedere Christian Eriksen accasciarsi in quel modo, come un robot improvvisamente privato di energia. Intuire la frenesia e la disperazione intorno a lui, i soccorsi salva vita a un ragazzo, un atleta nel fiore degli anni.
Una vita, una squadra
Gelo. È quanto provato in quei terribili secondi di ieri, durante la partita fra Danimarca e Finlandia agli Europei di calcio. Vedere Christian Eriksen accasciarsi in quel modo, come un robot improvvisamente privato di energia. Intuire la frenesia e la disperazione intorno a lui, i soccorsi salva vita a un ragazzo, un atleta nel fiore degli anni.
Gelo. È quanto provato in quei terribili secondi di ieri, durante la partita fra Danimarca e Finlandia agli Europei di calcio. Vedere Christian Eriksen accasciarsi in quel modo, come un robot improvvisamente privato di energia. Intuire la frenesia e la disperazione intorno a lui, i soccorsi salva vita a un ragazzo, un atleta nel fiore degli anni.
Ci eravamo appena riappropriati del senso di festa che il calcio sa dare, con il ritorno del pubblico negli stadi, il grande torneo che ha voluto mantenere la denominazione dello scorso anno – a ribadire la volontà di ricominciare a vivere – quando quegli attimi ci hanno colpito come un maglio.
Oggi, confortati dalle notizie positive arrivate già ieri sulle condizioni del giocatore dell’Inter, possiamo tornare ad altre immagini, destinate a durare.
Non dimenticheremo mai quella barriera di maglie rosse dei giocatori della Danimarca, schierati fisicamente in difesa del proprio compagno esanime. Vederli lì, in circolo, a far scudo con i propri corpi, a garantire un minimo di privacy a Christian e ai soccorritori la possibilità di fare il proprio lavoro non sotto l’occhio delle telecamere e di 10.000 smartphone.
Quel muro rosso ci ha ricordato che possiamo anche essere straordinari solisti, campioni baciati dal talento, ma se interpreteremo il nostro lavoro, la nostra vita come un One Man Show, in fin dei conti saremo sempre e soltanto da soli.
Ieri pomeriggio, nel momento più drammatico della sua vita, Christian Eriksen ha avuto intorno a sé – letteralmente – gli uomini con cui aveva sognato di vivere una splendida giornata di calcio. Li ha trovati, pronti e fermi negli attimi in cui da solo non avrebbe potuto far nulla.
Così come la sua compagna, Sabrina, in quei momenti di puro terrore ha trovato le braccia del portierone Schmeichel, figlio non solo d’arte, ma di un monumento danese, e del capitano Kiaer. Hanno sentito di dover fare qualcosa, aiutare quella ragazza costretta ad assistere a scene terribili. Lo hanno fatto nell’unico modo possibile, il più prezioso: abbracciandola e tenendola per quanto possibile lontano dall’incubo. In quei secondi, al braccio di Kjaer la fascia da capitano doveva pesare qualche quintale.
Non si trattava di protestare con l’arbitro o di tirare una monetina, il capitano ieri era alla testa di un gruppo di uomini chiamati a lottare, pur senza poter far nulla di concreto, per la vita di un loro compagno. E lo ha fatto magnificamente, ricordando la romantica ed eterna bellezza di un ruolo che chiunque abbia fatto sport, a qualsiasi livello, ricorda con rispetto e ammirazione.
L’ultima di queste immagini, mentre Christian veniva portato fuori dal campo grazie al cielo cosciente, è la Danimarca che fa ala alla barella. Lo hanno scortato, finché hanno potuto. Una corazza di maglie rosse che non dimenticheremo mai.
di Fulvio Giuliani
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Tag: La Ragione, sport
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