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He’s gonna be a “Rollin’ Stone”

Quando oggi pensiamo ai Rolling Stones, è naturale associarli all’essenza stessa della performance, al puro rock ‘n roll, vissuto in ogni sua sfaccettatura. Ma c’è stato un tempo in cui queste leggende altro non erano se non dei giovani musicisti a inizio carriera, presi dall’inseguire un sogno sulle orme dei propri idoli musicali. Mai come in questo caso il legame con i modelli fu fondamentale nel processo di formazione di quel sound e di quello stile che permise loro di esplodere.
È cosa nota che per la scelta del nome della band quei cinque ragazzi inglesi s’ispirarono alla canzone “Rollin’ Stone” di Muddy Waters, leggendario bluesman di Chicago, di cui reinterpretavano i brani cercando di carpirne i segreti. Un legame fortissimo che spinse gli Stones, una volta sbarcati in America, a chiedere come prima cosa di esser portati là dove quel blues era nato e dove ancora, seppur in rapido declino, sopravviveva. Era il 10 giugno quando entrarono per la prima volta negli studi della Chess Records, casa discografica dei fratelli Leonard e Phill Chess, dove era nata la musica di buona parte degli artisti a cui s’ispiravano, da Howlin’ Wolf a Little Walter, fino a Bo Diddley. Mentre gironzolavano tra una stanza e l’altra s’imbatterono in un uomo su di una scala intento ad imbiancare il muro: era Muddy Waters. Stringendo la sua mano sporca di vernice quei ragazzi realizzarono il sogno di poter incontrare il proprio idolo, e non smisero mai di essergli debitori. Grazie alla musica degli Stones, sia il blues delle origini che quello di Chicago furono riscoperti e trovarono prima in Inghilterra e poi negli stessi Stati Uniti una seconda importante giovinezza, fuggendo quel declino a cui sembravano destinati. A chi si chiede se siano mai riusciti a suonare con il proprio idolo, non ci resta che consigliare la visione del “Live at the Checkerboard Lounge” del 1981. di Federico Arduini

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