“Le Otto Montagne” come antidoto al caos
In questi giorni in sala, il film “Le otto montagne” con Alessandro Borghi e Luca Marinelli è l’antidoto al caos e al superfluo che ci attanaglia. Potere del cinema di qualità, che non andrà in pensione. Mai.
Le feste natalizie rappresentano da sempre un grosso miracolo per il cinema, rimpinguando le casse di un settore che fa ancora molta fatica a rialzarsi e farsi spazio tra gli innumerevoli cambiamenti socioculturali degli ultimi tempi. Complice il maggior tempo a disposizione da destinare a svago e tempo libero, i palinsesti cinematografici hanno sempre sfruttato questo momento per lanciare film di ogni genere, spesso anche di dubbia qualità. Ma non è questo il caso.
Accanto al più celebre “Avatar” e alla garanzia di successo del trio Aldo-Giovanni-Giacomo con l’ultimo film “Il grande giorno”, è il pacato “Le otto montagne” a stupire, trascinando il pubblico in sala e incassando nella sola giornata dell’Epifania 261 mila euro per un totale di 3,2 milioni.
Una co-produzione Italia, Francia e Belgio diretta da Felix Van Groeningen (regista belga già noto per “A Beautiful Boy” con il baby divo Timothée Chalamet) e Charlotte Vandermeersch basata sul romanzo di Paolo Cognetti, premio Strega nel 2017. Un romanzo di formazione, di vite intrecciate, rimorsi e rimpianti in cui tutto sembra inafferrabile e mutevole meno che una cosa: la natura.
La meraviglia di quella sala buia, quel fascio di luce che proietta immagini in movimento e alimenta la fantasia è ciò che rende il cinema un’anima fragile ma anche insostituibile; con “Le otto montagne” questo senso di piacevole perdizione diventa immediato. Si ferma la città, con la sua irrequietezza e senso di dispersione e ci si ritrova tra le montagne e le valli e i laghi, luoghi dimenticati e da dimenticare, almeno fino alla prossima settimana bianca all inclusive gran lusso.
“Siete voi di città che la chiamate natura. È così astratta nella vostra testa che è astratto pure il nome. Noi qui diciamo bosco, pascolo, torrente, roccia, cose che uno può indicare con il dito. Cose che si possono usare. Se non si possono usare, un nome non glielo diamo perché non serve a niente”, spiega Bruno, interpretato da Alessandro Borghi, che, come il Novecento di Baricco in versione montanara, non sa scendere dalla sua valle, ha paura del mondo lì fuori ed è capace solo di costruirsene uno tutto intorno, difficile da penetrare e scalfire. Eccetto che per una persona, per Pietro – interpretato da Luca Marinelli- il ragazzino strappato alla città per tre mesi estivi l’anno dalla famiglia. Loro due, le uniche due anime al di sotto dei trent’anni in un villaggio ad alta quota si studiano, si scoprono e danno vita ad un rapporto di amicizia che nulla ha da invidiare alle grandi e romantiche storie d’amore.
In 2 ore e 27 minuti allo spettatore sembra di respirare meglio, proprio come si fa in montagna. I dialoghi sono centellinati, intervallati dalla voce fuori campo di Pietro che recita passaggi del libro come in una preghiera. Nel mezzo delle scene, l’antica dualità tra “il tempo della leggerezza”, quella della compianta e dolce gioventù, e “il tempo della gravità”, quella in cui in un attimo si diventa adulti senza aver avuto le istruzioni giuste per comportarsi come tali. Pietro e Bruno si separano, crescono, prendono strade diverse per poi incontrarsi ancora. Sono uomini, entrambi a modo loro, il cui paradigma principale è la scelta accurata delle parole da non dire, delle emozioni da nascondere. Un antico retaggio culturale difficile da scrollarsi di dosso anche nei film.
Le musiche di Daniel Norgren accompagnano quei silenzi pesanti tra i due ma anche la guerra delle stagioni, tra l’estate che rende la montagna vitale e accogliente e l’inverno, in cui la neve ghiaccia tutte le cose, meno che i ricordi. “Il ghiacciaio è la neve degli inverni lontani, è un ricordo d’inverno che non vuole essere dimenticato” dice il papà di Pietro, interpretato magistralmente da Filippo Timi, a Bruno. “È probabile che tu stia bevendo acqua di 250 inverni fa. Non è incredibile?”.
I luoghi del film, poi, una meraviglia. Girato per lo più in Valle d’Aosta, in Val d’Ayas e laghi di Frudiere, con alcune scene girate nel lontano Nepal, fanno da sfondo a un film di estrema raffinatezza e qualità. Borghi e Marinelli si confermano attori consapevoli e calati nel ruolo e la loro intesa, fuori e dentro la pellicola, è tangibile. Se avete voglia di fuggire dal caos per calarvi nella pace, sedetevi, mettetevi comodi e gustatevi questa perla.
“Non pensavo di trovare un amico come Bruno nella vita, né che l’amicizia fosse un luogo dove metti le tue radici e resta ad aspettarti“.
di Raffaela Mercurio
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Tag: film, recensioni
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