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Lo sguardo giusto di Daniele Silvestri

In “Occhi da orientale” di Daniele Silvestri è raccontata tutta la difficoltà nel percepire l’altro, similmente a quanto scritto da Grossman

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Il primo capitolo di “A un cerbiatto somiglia il mio amore” di David Grossman (Mondadori, 2008) è un lungo duello tra due sedicenni, Orah e Avram, ricoverati nell’ospedale di Gerusalemme durante la Guerra dei sei giorni. Nella penombra delle notti insonni i ragazzi, tormentati dalle febbri di un’insidiosa malattia infettiva, riescono a guardarsi solo attraverso il tenue bagliore del fiammifero.

Nella canzone di Daniele Silvestri,Occhi da orientale, compresa nell’omonimo album del 2000, accade qualcosa di simile. Nonostante le differenze strutturali, si tratta della medesima intuizione: siamo certi di osservare l’altro per quello che è? Oppure la nostra vista è appannata da una spessa coltre di buio (di errore) che non ci permette di percepire la piena bellezza dell’alterità? La scena descritta da Silvestri è, dunque, almeno situazionalmente analoga all’affresco proposto da Grossman: un uomo scruta con profonda pazienza la sua leggiadra fanciulla, mentre lei dorme beata (o tassianamente par che dorma). «Occhi da orientale che raccontano emozioni, / sguardo limpido di aprile, di dolcissime illusioni. / Tutto scritto su di un viso che non riesce ad imparare / come chiudere fra i denti almeno il suo dolore. // Più di cinquecento notti già mi sono innamorato / di una bocca appena aperta e di un respiro senza fiato. / Se potesse questo buio cancellare l’universo, / forse ti potrei guardare e non sentirmi così perso».

Gli «occhi da orientale» – chiaro esempio di connotazione – lasciano trasparire uno «sguardo limpido di aprile» (il mese più crudele, secondo Eliot), una sorta di sinestesia, cioè compresenza di due sfere sensoriali diverse. Ma potrebbe essere considerato più precisamente uno scarto semantico, come il «gomitolo di strade» di Ungaretti, e più avanti, nel testo di Silvestri, le «palpebre di viole». Dopo l’iperbole delle «cinquecento notti», ci sarà l’adynaton – ossia la perifrasi paradossale – della cancellazione dell’universo.

Perché mai Silvestri utilizza un imponente armamentario di figure retoriche? Il fine è l’indefinibilità – scusate la paronomasia – di ciò che si vede: la paradigmatica bellezza femminile, in tal caso. Anche questa, se vogliamo, è una figura retorica: l’aposiopesi, la reticenza, cioè l’artificio letterario che sottolinea l’inadeguatezza dell’espressione: «Ma tu dormi ancora un po’, non svegliarti ancora no: / ho paura di sfiorarti e rovinare tutto. / No, tu dormi ancora un po’, ancora non so / guardarti anch’io nel modo giusto». Una dichiarazione d’impotenza formale, una specie di via negationis. Insomma, la domanda cruciale è: come poter sgomberare la vista e finalmente guardare nel modo giusto? Dove risiede la giustezza (l’obiettività, la purezza) dello scorgere?

Se lo chiedevano anche i trovatori, Guido Guinizzelli, Dante e Guido Cavalcanti (gli antinomici «occhi innocenti, disarmanti, devastanti» – si noti il climax ascendente – assomigliano a quelli di Giovanna Primavera). La poesia stessa, per loro, era la definizione di un guardare schiettamente la schietta bellezza di madonna. La poesia era questa avventura dello stile, questa tensione al non detto, questo grado sempre maggiore di altezza spirituale che implicava l’enormità del dono e la dignità del donatore.

Alberto Fraccacreta

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