Perfect Days di Wim Wenders, ode alla semplicità
“Perfect Days” di Wim Wenders conquista gli amanti del cinema con una storia di routine e semplicità che ci avvicina alla perfezione
Tutto si ripete. Ogni giorno, con un certo meccanicismo. Hirayama (Kōji Yakusho) ogni mattina si sveglia alla stessa ora, sistema il suo letto con rigore, annaffia le piante, si lava il viso e si rade ogni giorno con assoluta precisione. Esce di casa, alza gli occhi al cielo e ci ripropone la stessa identica espressione grata con cui si affaccia alla giornata. In Perfect Days (nelle sale dal 4 gennaio) Wim Wenders – regista tedesco di Il cielo sopra Berlino – ci guida nella routine di un individuo che della semplicità – nelle sue forme più basilari, primarie, rigorose e fondamentali – ha fondato la sua formula di vita.
Sulle note di Otis Redding, Bob Dylan, Patti Smith, affondiamo – con un’indolenza a tratti esasperante, ma necessaria – nel continente quieto di un signore solitario che sembra suggerirci di rallentare. Considerare i dettagli. Contemplare un albero. Hirayama è l’addetto alle pulizie dei bagni pubblici di un quartiere di Tokyo, lo osserviamo lavare, smacchiare, disinfettare scrupolosamente i gabinetti, addirittura con uno specchietto che gli consente di vedere i resti di urina o feci nelle cavità dei water. Questa dedizione, forse ci dice che l’idea di affezionarci anche alle cose più ordinarie e magari sgradevoli come lo può sembrare avere cura del luogo dedicato alle deiezioni di noi esseri umani, genera una specie di risolutezza che discende da qualcosa di più nobile rispetto alle ambizioni che godono di un fulgore riconosciuto da tutti. Cosa contiene in sé l’assidua ripetizione? Forse la garanzia di una vita libera dagli eccessi, perché il rigore della ripetizione non lascia spazio alle intrusioni di ogni genere (piuttosto a quelle di una certa sensatezza) e connette con la parte più essenziale della vita e del nostro tempo.
Pulitura assidua, rimozione tenace e fedele in un mondo dove ormai nessuno è più capace di rimuovere nulla, di rinunciare a qualcosa. Al contrario, ci si riempie di cose, dispositivi, si accumula. Più hai e più determini la tua posizione nel mondo, non con la tua essenza, ma con l’abbondanza di cose che possiedi. Viviamo dentro una formula che venera la somma, onora l’accumulo, l’ammontare di beni materiali, così come l’addensamento di parole da parte di tutti. Pare che nessuno sia più capace di fare silenzio, astenersi dall’imporre il proprio pensiero, di non concorrere con chi si contende l’ultima parola. Hirayama, invece, parla solo se necessario. Si esprime con assoluta oculatezza e in questo suo delicato e ispirante modo di osservare e rendere grazie al mondo, ci regala un grande messaggio: la semplicità ci avvicina alla perfezione e la perfezione così come la bellezza è accessibile a tutti. Come lo sono la letteratura (dove forse la presenza dell’autore sovrasta l’indole del personaggio) e la musica, quest’ultima grande protagonista insieme a Hirayama.
Un susseguirsi di celebri brani rock anni ’70 accompagna quest’esperienza intima e pacificante: da Lou Reed che con il suo indimenticabile Perfect Day evoca il titolo del film, ai Velvet Underground con Sunday Morning, a Nina Simone che con Feeling Good imbocca l’idea di un nuovo giorno, dopo che un cambiamento s’inserisce nella vita di Hirayama e per la prima volta in tutto il film, su una Tokyo prima nuvolosa, appare il sole.
di Hilary Tiscione
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Tag: Cinema, recensioni
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