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L’antifascismo non può mai essere un’operetta

L’antifascismo è una cosa serissima: non dovrebbe mai scadere a canzoncina intonata al Festival per dribblare o anticipare la domanda di rito senza fantasia e ancor meno cervello
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L’antifascismo non può mai essere un’operetta

L’antifascismo è una cosa serissima: non dovrebbe mai scadere a canzoncina intonata al Festival per dribblare o anticipare la domanda di rito senza fantasia e ancor meno cervello
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L’antifascismo non può mai essere un’operetta

L’antifascismo è una cosa serissima: non dovrebbe mai scadere a canzoncina intonata al Festival per dribblare o anticipare la domanda di rito senza fantasia e ancor meno cervello
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L’antifascismo è una cosa serissima: non dovrebbe mai scadere a canzoncina intonata al Festival per dribblare o anticipare la domanda di rito senza fantasia e ancor meno cervello
L’antifascismo è una cosa non seria, serissima. È il fondamento della nostra Repubblica, il cemento con cui abbiamo edificato la Costituzione, con cui abbiamo scelto la Repubblica e detto addio alla monarchia orrendamente compromessa con il regime fascista e macchiato a imperitura memoria da colpe inemendabili.  L’antifascismo non può mai essere un’operetta, non dovrebbe mai scadere a canzoncina intonata sul palco del Festival di Sanremo, nei dintorni, tanto per dribblare o anticipare la domanda di rito senza grande fantasia e ancor meno cervello. La stessa storia di “Bella Ciao” – che sulle pagine de La Ragione abbiamo raccontato nel dettaglio ricordando come non fosse nata come canzone partigiana, per poi seguirne la sua affascinante evoluzione – non avrebbe meritato di essere ridotta a uno slogan di parte.  Ormai è andata così e converrebbe sempre ricordare che la seconda giovinezza di questa storica canzone di lotta la si deve in buona misura ad una serie televisiva, La Casa di Carta, fortunata quanto ci vuole ma ovviamente lontanissima dai grandi ideali e il cui cast Amadeus avrebbe voluto al festival nel 2021. Appunto.  Non sarà intonando qualche strofa che ci distingueremo. Sappiamo perfettamente che il Festival catalizza molta più attenzione di qualsiasi occasione istituzionale (ci scappa anche da ridere a ipotizzare paragoni) e che Amadeus per 5 giorni subisce pressioni ben superiori a qualsiasi ministro della Repubblica, ma proprio per questo non è obbligatorio buttare tutto in caciara. Portare su quel palco i grandi temi è storia antica e scelta assolutamente corretta e condivisibile (purché non si esageri), ma è tutto una questione di metodo. Non si può partire di lunedì convocando i trattori e gli agricoltori, muovendosi in modo singolarmente simile a quanto fatto con Jannik Sinner e il martedì passare all’antifascismo ridanciano. Pur con le migliori intenzioni, per carità del cielo, ma si può anche alzare la mano e dire che c’è un tempo e uno spazio per tutto. Dignità e fermezza.  Su quel palco salì Mikail Gorbačëv, un uomo a cui dobbiamo moltissimo, un leader visionario e straordinario che all’epoca fu anche criticato da qualche perditempo per il cachet che avrebbe ricevuto al Festival. La sua sola presenza aiutò tanti italiani magari a fare una domanda in più, prendere un libro in mano, fare una ricerca su cosa fosse stata la sua avventura umana e politica e chi fosse quel signore distinto. A ricordare che, come quasi sempre nella vita, il problema non sono le situazioni e le circostanze, ma come le viviamo e sfruttiamo. Compreso il Festival di Sanremo, che resta una magnifica e innocua ossessione che riesce a farci sentire tutti un po’ più italiani. di Fulvio Giuliani

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