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Il mondo in una cassata

Aprire la bocca e la mente. La cucina è unione e condivisione, più di ogni altra cosa, ci insegna quanto siamo uniti e uguali.
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Il mondo in una cassata

Aprire la bocca e la mente. La cucina è unione e condivisione, più di ogni altra cosa, ci insegna quanto siamo uniti e uguali.
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Aprire la bocca e la mente. La cucina è unione e condivisione, più di ogni altra cosa, ci insegna quanto siamo uniti e uguali.
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Aprire la bocca e la mente. La cucina è unione e condivisione, più di ogni altra cosa, ci insegna quanto siamo uniti e uguali.
Quasi tutti l’hanno mangiata, ma molti se ne sono persi il sapore che dalla bocca arriva alla testa. Una tradizione che ora si rinnova tutti i giorni, ma che un tempo fu il rito della domenica di Pasqua. Quel giorno nonno Giovanni mi mandava in pasticceria a ritirare la cassata, grande quanto una ruota di camion. Se nel resto d’Italia prevale il detto “Natale con i tuoi e Pasqua con chi vuoi”, nella mia famiglia non è mai stato così. Una tavolata lunga almeno 12/14 metri, più il tavolato dei bambini. Il rito era sempre lo stesso: antipasti già sul tavolo e con le mamme sveglie da due giorni per preparare tutto. Loro sempre in piedi, avanti e indietro. Ma il momento più atteso era l’apertura della cassata, che già alla vista le papille gustative impazzivano e la salivazione era come un rubinetto dell’acqua aperta, e via a scegliere se il pezzo con la pasta reale oppure solo pan di Spagna o meglio metà e metà. Una poesia. Da quel momento calava un silenzio fastidioso, si sentivano solo frasi come «Ma di chi è ‘sta cassata?», qualcuno esclamava addirittura «Dopo chista pozzu puru moriri». Finita quella, nel pomeriggio si tagliava la cassata realmente secolare: quella al forno, altra prelibatezza che quando la mangi viaggi dall’Oriente all’Occidente, senza sosta se non giusto il tempo di un altro pezzo. È quindi giusto parlare di cassate, perché tutti i suoi ingredienti arrivano da lontano: le farine per la frolla con ancora i nomi Tumminia, Russello e Maiorca, il marzapane con il pistacchio che giunge dall’Anatolia, le mandorle che introdussero gli arabi, la cioccolata arrivata con la scoperta dell’America, i canditi venuti con gli svevi, la cannella che ti fa sentire in qualche medina del Maghreb. Spesso amiamo dire che questa o quella cosa è ‘tipicamente nostra’, ma va ricordato che senza il viaggio e l’emigrazione degli uomini oggi tutti questi ingredienti non li avremmo. La cucina è unione e condivisione. Da noi si dice «‘A tavula è trazzera» (strada) perché ogni passante può accomodarsi ed è il benvenuto. Più di ogni altra cosa, la cucina ci insegna quanto siamo uniti e uguali. Poi sono la maestria e l’ingegno a creare quelle diversità che arricchiscono il nostro patrimonio. Seguiamo gli ingredienti e ci accorgeremo che in fondo siamo tutti africani, orientali, nordici e del Sud. Non limitiamoci all’esecuzione della ricetta ma approfondiamo le origini delle parole. Dopo lo stupore iniziale scopriremo quanto è bello prender coscienza della nostra grande affinità con quelli che chiamiamo stranieri, accorgendoci che senza di loro non potremmo disporre del mosaico culinario più ricco del mondo: la cucina italiana. di Cuciniere Rocco Costanzo 

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