
Musica arida, numeri effimeri, cataloghi vuoti
L’industria musicale continua a spingere sul singolo, spesso assemblando album che sono poco più di raccolte di brani già pubblicati, completamente privi di una reale visione d’insieme
Che negli ultimi decenni l’accelerazione tecnologica abbia portato a vere rivoluzioni è sotto gli occhi di tutti. Fra i mondi più colpiti c’è senza dubbio la musica, che ha visto i suoi modelli tradizionali sconvolti in profondità. Con l’arrivo dello streaming e della fruizione libera di massa, il mercato ha compiuto una decisa inversione a U: via l’album come punto di riferimento e dentro i singoli, la produzione usa e getta, i trend topic e gli algoritmi. Risultato? Numeri immediati e volatili, ma a scapito di quello che per decenni era stato il cuore pulsante della conversazione musicale: il disco.
Negli ultimi mesi qualche timido segnale di ritorno al formato lungo si è intravisto, ma è chiaro che l’industria continua a spingere sul singolo, spesso assemblando album che sono poco più di raccolte di brani già pubblicati, completamente privi di una reale visione d’insieme (aspetto di cui gli ascoltatori si accorgono). Una tendenza che rischia di produrre desertificazione creativa.
E in un’epoca in cui i veri guadagni arrivano dai cataloghi, perseverare su questa strada appare come un clamoroso autogol: come si possono costruire archivi solidi se i singoli durano lo spazio di una settimana? La storia della musica è piena di esempi che smentiscono questa logica: B-side dimenticati diventati cult, brani nati come ‘riempitivi’ di album poi capaci di aprire carriere. È da lì che nascono i classici. Forse è il momento di ricordarlo: le hit passano, gli album restano.