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Ambasciatore porta pena

Con l’espulsione dei dieci ambasciatori occidentali firmatari dell’appello per la liberazione di Osman Kasala, il filantropo contrario al regime di Erdogan detenuto senza processo da quattro anni, la Turchia scava un’altra voragine tra sé e il mondo libero.
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Ambasciatore porta pena

Con l’espulsione dei dieci ambasciatori occidentali firmatari dell’appello per la liberazione di Osman Kasala, il filantropo contrario al regime di Erdogan detenuto senza processo da quattro anni, la Turchia scava un’altra voragine tra sé e il mondo libero.
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Ambasciatore porta pena

Con l’espulsione dei dieci ambasciatori occidentali firmatari dell’appello per la liberazione di Osman Kasala, il filantropo contrario al regime di Erdogan detenuto senza processo da quattro anni, la Turchia scava un’altra voragine tra sé e il mondo libero.
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Con l’espulsione dei dieci ambasciatori occidentali firmatari dell’appello per la liberazione di Osman Kasala, il filantropo contrario al regime di Erdogan detenuto senza processo da quattro anni, la Turchia scava un’altra voragine tra sé e il mondo libero.
Con l’espulsione dei dieci ambasciatori occidentali firmatari dell’appello per la liberazione di Osman Kasala – il filantropo contrario al regime di Erdogan detenuto senza processo da quattro anni – la Turchia scava un’altra voragine tra sé e il mondo libero. Appena pochi anni fa la nazione che fu plasmata da Atatürk, il visionario leader padre della moderna Turchia che la collocò nel solco della tradizione giuridica occidentale, sognava di entrare a far parte della famiglia dell’Unione europea. Voleva consacrarsi, assieme a Israele, oasi di rispetto dei diritti umani e delle libertà politiche nel variegato universo medio-orientale martoriato da lotte liberticide e fratricide. Come tutti i sogni, specie quelli più belli, non è durato a lungo e il risveglio della popolazione turca è stato brusco: è bastata una funambolica notte d’estate del 2016, quella del presunto golpe fallito, a catapultare nel passato una nazione che voleva credere in un futuro diverso rispetto alle tristi realtà vissute dai propri vicini. Da allora Recep Tayyip Erdogan ha dimostrato al mondo di quale pasta è fatto, instaurando uno Stato di polizia, giustificandolo come necessario per la sicurezza della nazione e recedendo da tutti gli impegni presi nei confronti delle democrazie occidentali. I dieci ambasciatori bollati come persone non gradite in Turchia (fra loro quelli di Usa, Germania e Francia) sono l’ennesimo confine superato dal dittatore e la loro espulsione dal suolo nazionale non potrà non avere ripercussioni. I capi delegazione saranno costretti a stretto giro ad abbandonare la propria missione nel Paese anatolico, rei di aver provato senza l’uso di armi a riportare nell’alveo della legalità un leader che in cinque anni si è reso colpevole di aver soffocato le libertà fondamentali e represso nelle carceri il dissenso coagulato attorno alla sua figura. Con la richiesta della liberazione di Kasala, l’Occidente non voleva ‘solamente’ chiedere il rispetto di una sentenza della Cedu del 2019 – confermata nel 2020 e che imponeva la liberazione dell’uomo d’affari detenuto senza che gli fosse garantito un giusto processo – ma intendeva anche rendere palese come non sia più disposto a voltarsi dall’altra parte di fronte alla deriva imposta dall’autocrate. Il 30-31 ottobre Erdogan è atteso a Roma per il G20. Ora, ancora più di ieri, sarà interessante ascoltare cosa avrà da dire Mario Draghi a colui che definì senza remore «dittatore», innescando una spirale di sdegno da parte dei soliti perbenisti.   di Stefano Musu

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