Gli Usa, miniera d’oro del follemente corretto
Gli Stati Uniti, sul politically correct, ci deliziano sempre. È il caso, ad esempio, della vicenda del professore italiano Luigi Andrea Berto e della lettera inviata alla giornalista Natalia Aspesi.
| Esteri
Gli Usa, miniera d’oro del follemente corretto
Gli Stati Uniti, sul politically correct, ci deliziano sempre. È il caso, ad esempio, della vicenda del professore italiano Luigi Andrea Berto e della lettera inviata alla giornalista Natalia Aspesi.
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Gli Usa, miniera d’oro del follemente corretto
Gli Stati Uniti, sul politically correct, ci deliziano sempre. È il caso, ad esempio, della vicenda del professore italiano Luigi Andrea Berto e della lettera inviata alla giornalista Natalia Aspesi.
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Gli Stati Uniti, sul politically correct, ci deliziano sempre. È il caso, ad esempio, della vicenda del professore italiano Luigi Andrea Berto e della lettera inviata alla giornalista Natalia Aspesi.
Per chi segue le vicende del politicamente corretto, gli Stati Uniti sono una insostituibile miniera di follie. Però, di norma, le follie si presentano una alla volta. Non così nella vicenda che il professor Luigi Andrea Berto – italiano trapiantato in America, docente di Storia alla Michigan University – ha voluto raccontare a Natalia Aspesi in una lettera alla rubrica “Questioni (non solo) di cuore” su “Il Venerdì di Repubblica”. Lui, di follie, ne ha dovute affrontare tre in un colpo solo.
Riassumo dalla sua lettera. Da una decina di anni, il professor Berto tiene un corso generale sulla “Storia del mondo occidentale fino al 1500”. Per far vedere ai propri allievi «come il passato possa essere deformato da idee contemporanee» si serve del celebre film “300” (del 2007) sulla battaglia delle Termopili (480 a.C.), in cui gli eroici trecento spartani, guidati da Leonida, si immolarono nel tentativo di fermare l’esercito dei persiani capeggiato da Serse. Per dieci anni nessuna protesta, solo qualche mugugno da parte di studenti «troppo patriottici e conservatori». Ultimamente, però, un paio di studentesse lo hanno accusato presso l’amministrazione dell’università di far vedere cose inappropriate e «molestie sessuali». E qui incontriamo la prima follia. Anziché offrire un supporto psicologico (e culturale!) alle due studentesse, evidentemente incapaci di prendere le distanze da un film-fumetto, viene portato sul banco degli accusati il docente, che peraltro usa il film per metterne in evidenza la parzialità e le distorsioni, non certo per sottoscriverne acriticamente i contenuti.
Ma non finisce qui. Nel frattempo, racconta il professor Berto, «nell’ambito dell’operazione diversità e inclusione» l’amministrazione dell’università inserisce nel nuovo contratto l’obbligo di fare un corso online su quei temi. Qui siamo alla seconda follia: obbligare i docenti a seguire un corso che non è di tipo funzionale (norme antincendio) o di tipo tecnico (uso di nuovi supporti didattici multimediali) o di tipo giuridico (diritti degli studenti e dei docenti) ma di tipo politico-ideologico.
Come testimonia la terza follia, ossia quel che succede alla fine del corso. Racconta il professor Berto: «Tra le lezioni del corso ve n’erano di varie sulle molestie sessuali. Alla fine delle lezioni si doveva fare un multiple choice quiz (quiz a crocette). Una domanda chiedeva se le accuse di molestie sessuali sono sempre vere. Se non si rispondeva sì, non si poteva proseguire nel corso e quindi si era licenziati perché non si era rispettato il contratto. Effetti collaterali del MeeToo?». Persino Natalia Aspesi, femminista e progressista da sempre, non riesce a nascondere il suo sconcerto: «L’obbligo del sì rivela tutta l’ipocrisia dell’iniziativa, perché si decide che le donne hanno sempre ragione».
Il vero guaio, però, forse sta altrove. Il guaio è che quello delle molestie e di altri temi più o meno sensibili è un argomento altamente controverso, come dimostra l’enorme spettro di opinioni e reazioni suscitate dal MeToo, anche all’interno del mondo femminile. E quando un tema è controverso, tutto si può fare tranne che obbligare studenti, professori, utenti, dipendenti pubblici e privati a sottoporsi alle esternazioni di sedicenti esperti o educatori e ancor meno obbligare i malcapitati discenti a sottoscrivere le idee e le credenze dei formatori, quasi sempre vestali arciconvinte dell’ortodossia woke. Quando ciò avviene, non vuol dire che le istituzioni sono finalmente diventate sensibili a un problema ma che stanno facendo nascere una polizia del pensiero, con le sue guardie rosse e il suo libretto di pensieri giusti. Non di rado, con l’assenso tacito dei meglio intenzionati fra noi.
di Luca Ricolfi
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