Inutili moralismi
Inutili moralismi
Inutili moralismi
Quanto moralismo, nella vicenda del rider che in provincia di Verona avrebbe consegnato un panino pedalando per 50 km, inducendo chi aveva ordinato la cena a “pentirsi” pubblicamente. Secondo l’azienda che ha gestito la consegna, i chilometri percorsi sarebbero stati 12, comunque tanti anche in termini di efficienza del servizio, ma a colpire è proprio l’approccio moralistico. Il tema ha evidenti ricadute di carattere sociale, ma resta pur sempre legato all’evoluzione del mercato del lavoro. Dichiararsi “pentiti” – anche facendo finta di non sapere che una “confessione” del genere è fatta su misura per i like social – è indice di un atteggiamento mentale: valutare le scelte di imprese e lavoratori sul piano del bene e del male, del giusto e dello sbagliato. Categorie morali che ci portano lontano dalla sostanza del problema.
Tutta la retorica dello sfruttamento, dei nuovi schiavi dell’era digitale poggia su un’idea di fondo: il mondo del lavoro di oggi sarebbe costruito per riportare il lavoratore in una catena di montaggio da primo Novecento, con l’unica differenza dell’immaterialità di molti dei lavori odierni. Uno schema in cui le multinazionali sono invariabilmente brutte sporche e cattive, disposte a sacrificare tutto e tutti sull’altare del profitto. Richiamo subdolo in un Paese che di multinazionali ne ha poche e sviluppa gran parte della propria straordinaria capacità produttiva in una miriade di medie, piccole e piccolissime aziende. In Italia, per farla breve, è più facile sostenere il mito della grande company straniera approfittatrice, facendo finta di non sapere quanto spesso le condizioni contrattuali, economiche e di welfare siano migliori nelle multinazionali rispetto a tante Pmi di casa nostra.
Torniamo, però, al punto: che il lavoro dei rider – fondamentali nell’e-commerce e ancor più con l’esplosione del fenomeno del delivery alimentare – sia nato in modo disordinato, sottopagato e troppo deregolamentato è pacifico. Un problema a cui si è data giusta attenzione e che ha spinto le aziende a una serie di interventi positivi. Pretendere, al contempo, che questo lavoro possa trasformarsi in un’occupazione stabile, credere che ci sia qualcuno interessato a fare il rider a vita, significa raccontar balle. Oggi regolamentiamo e ci poniamo il problema di lavori che un tempo erano svolti al di fuori di qualsiasi norma e tutela, nell’assoluta indifferenza. Chi scrive è cresciuto a Napoli, dove la figura del “guaglione” del salumiere, del fruttivendolo o del pizzaiolo che ti consegnava la Margherita a domicilio era la regola. Evitiamoci il ruolo dei buoni samaritani e piuttosto ricordiamo che questi sono fra i pochi lavoratori in Italia realmente interessati all’idea di un salario minimo. La stragrande maggioranza è in effetti tutelata dai contratti collettivi nazionali.
Chiediamoci al contempo se un eccesso di regolamentazione, accompagnato da un insopportabile moralismo, non sia la strada perfetta per convincere le multinazionali (brutte sporche e cattive, of course) che in Italia non ci sia mercato. È già successo e dovremmo far di tutto per evitare che si ripeta. Non è un problema limitato alle consegne dei panini o del sushi, perché sono freschi i dubbi di Intel sulla realizzazione nel nostro Paese di un mega impianto per i microchip dato per certo fino a poco fa o la decisione del colosso degli elettrodomestici Whirlpool di cedere i siti produttivi italiani a un investitore turco. Ne abbiamo già scritto: l’Italia rischia di creare un mix tossico per gli investitori interni e stranieri, fra giustizia che non funziona, norme soffocanti e umori della pubblica opinione assurdamente indirizzati contro l’impresa e il capitale.
Non ricevere più la pizza a casa potrebbe essere scomodo e spingerci ai margini dell’app economy, ma perdere industrie e investimenti ci impoverirebbe tutti. Allora, ci resterebbe solo il pentimento. Quello vero.
Di Fulvio Giuliani
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