Tumori, Valabrega (UniTorino): “Risposta superiore con immunoterapia a endometrio”
Roma, 28 mar. (Adnkronos Salute) – “Sono entusiasta. Partecipando allo studio Ruby”, che ha indagato l’aggiunta dell’immunoterapia alla chemio, “ho trovato un discreto numero di pazienti” con tumore endometriale primario avanzato o ricorrente “che avevano una risposta” clinica superiore, “fuori dalla norma, rispetto alla tradizionale chemioterepia con carboplatino taxolo” da sola. “Ora ci poniamo la domanda se serva la chemio per tutte, quando serva solo l’immunoterapia, cosa fare nelle pazienti che progrediscono, in quelle che non rispondono alle terapie. Su questo ci sono altri studi in corso”. Lo ha detto, in un incontro con i giornalisti, Giorgio Valabrega, professore associato di Oncologia medica Università di Torino, Fpo-Irccs Candiolo, coordinatore per l’Italia dello studio clinico Ruby, i cui risultati di fase 3 sono stati presentati in queste ore all’Annual Meeting of Women’s Cancer, organizzato dalla Society of Gynecologic Oncology americana a Tampa, in Florida.
Lo studio clinico di fase 3 Ruby ha dimostrato che, nel trattamento del tumore endometriale primario avanzato o ricorrente, l’immunoterapia a base di dostarlimab più la chemioterapia, rispetto alla sola chemioterapia, ha portato a una riduzione del 72% e del 36% del rischio di progressione della malattia o di morte, rispettivamente, nella popolazione con una condizione genetica nota come instabilità dei microsatelliti (dMMR/MSI-H) e nella popolazione complessiva di pazienti.
“C’è un gradiente da considerare – spiega Valabrega – Quando abbiamo un bersaglio chiaro”, come l’instabilità dei microsatelliti, “l’entità del beneficio è maggiore, con una Hr (Hazard ratio, cioè un rischio di recidiva) dello 0,28, ma nella popolazione generale, una Hr tra 0,6-0,7 è comunque meravigliosa”. Si deve inoltre considerare che “questo beneficio, con l’immunoterapia, continua anche quando la sospendiamo. Con la chemioterapia continuiamo fino a quando non c’è progressione. Ora vediamo che i benefici delle modificazioni del sistema immunitario sono più durevoli rispetto ai chemioterapici”, aggiunge l’esperto.
“Siamo partiti dalla chemio per tutte e l’ormonoterapia dove era utile – osserva Valabrega – e ora abbiamo una situazione in cui caratterizziamo molecolarmente i tumori e diamo una terapia efficace che dura per lunghissimo tempo. Le curve nello studio Ruby ci dicono che” potenzialmente “stiamo guarendo queste donne. L’immunoterapia ci mette un pochino a funzionare, ma quando entra a regime funziona”. Anzi, “quando si fa immunoterapia da sola verso placebo le curve restano separate. Si può pensare che alcuni gruppi potrebbero beneficiare della sola immunoterapia senza chemio. Attualmente sono in corso studi in cui, in prima linea, la chemio non viene utilizzata”.
C’è un enorme lavoro in corso e “i risultati arriveranno tra un anno e mezzo circa dallo studio traslazionale – aggiunge Valabrega -. Sono stati raccolti tessuti in vari momenti della malattia per correlare le risposte particolarmente positive o le resistenze ai trattamenti, con dati molecolari. Si stanno facendo studi sulla quantità di mutazioni a carico di questi tumori, sottotipi molecolari, cosa succede nelle P53 mutate. Sono dati apparentemente meno importanti ma, in prospettiva, potrebbero essere di fondamentale importanza per la selezione delle pazienti che hanno maggiore possibilità di risposte a particolari terapie”, conclude.
Il tumore dell’endometrio che interessa il corpo dell’utero – si è ricordato nell’incontro – è estremamente frequente: 9-10mila casi all’anno. E’ tendenzialmente tipico del post menopausa, la diagnosi è intorno ai 60 anni. È una malattia per cui ci sono fattori di rischio metabolico (diabete, obesità), altri di tipo genetico, come l’instabilità dei microsatelliti, che è collegata alla Sindrome di Lynch, con cui si ha trasmissione genetica. Farmaci come il tamoxifene usato per il tumore al seno, che aumentano il rischio del tumore all’endometrio. E’ una malattia che è stata un po’ trascurata, anche se si diagnostica, generalmente in prima fase, locale, ma per la quale non esiste uno screening come il pap test per il collo dell’utero. La diagnosi è abbastanza semplice perché è legata a un sintomo precoce che è il sanguinamento anomalo in pre e postmenopausa, per questo va sempre approfondito con l’ecografia transvaginale, isteroscopia e la Tac per definire se la lesione tumorale sia limitata all’utero e, nel caso, viene operata in laparoscopia.
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