Conti, salari e insensatezze
Il reportage de “Il Corriere della Sera” su un esercizio a Napoli che offre di pagare (in nero) 150€ a settimana un delivery boy. Ammesso che sia vero
| Economia
Conti, salari e insensatezze
Il reportage de “Il Corriere della Sera” su un esercizio a Napoli che offre di pagare (in nero) 150€ a settimana un delivery boy. Ammesso che sia vero
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Il reportage de “Il Corriere della Sera” su un esercizio a Napoli che offre di pagare (in nero) 150€ a settimana un delivery boy. Ammesso che sia vero
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Il reportage de “Il Corriere della Sera” su un esercizio a Napoli che offre di pagare (in nero) 150€ a settimana un delivery boy. Ammesso che sia vero
Il “Corriere della Sera”, specie in tempi di calura e temporali, sembra amare i reportage paradossali. Tempo fa ci presentò il supposto caso di una “bidella pendolare” che oscillava fra Napoli e Milano, non potendo permettersi un affitto milanese… salvo poi verificare che ovviamente era una bufala. Ora, sempre da Napoli, ci riportano il caso di un esercizio che offre di pagare (suppostamente in nero) 150 euro alla settimana un delivery-boy per 60 ore di lavoro, equivalenti a un compenso ‘bulgaro’ di 2,5 euro all’ora. Immaginiamo che l’offerta sia vera e facciamoci due calcoli: se il commerciante dovesse adeguarsi al proposto “salario minimo” di 9 euro netti all’ora per una prestazione che includerebbe 20 ore settimanali di straordinari pagati ancor meglio (ammesso che ciò sia lecito), avrebbe un costo del lavoro intorno ai 6mila euro mensili per questo collaboratore. Assumendone due a orari alternati, per rispettare il limite di 40 ore settimanali, il costo totale sarebbe di circa 7mila euro mensili. Se le merci da consegnare fossero gioielli di valore, un costo del genere sarebbe forse compatibile con i margini di utile dell’attività, ma per un droghiere o un pasticciere remunerazioni del genere sarebbero insostenibili. Ed è per questo che esistono Uber Eats e servizi concorrenti di delivery, che in sostanza vengono remunerati a cottimo. In mancanza, quando si vuole una torta si va a prenderla in pasticceria. C’è un motivo eventuale di indignarsi se i moto-boy di Uber Eats guadagnano soltanto 2 euro l’ora, ma immaginare di poter trasformare le prestazioni di servizi della gig economy in posti di lavoro fissi con remunerazioni elevate conduce unicamente all’eliminazione di queste attività – perlomeno se svolte legalmente – e non alla creazione di “posti di lavoro”. Chi gestisce un’impresa sa bene che i collaboratori capaci e dotati d’esperienza sono un patrimonio per l’azienda e vanno dunque pagati bene e incentivati a restare per molti anni. Ma sa anche che molte funzioni che fino a ieri necessitavano dei servizi di un dipendente, oggi possono essere svolte da una macchina o da un algoritmo e che molti servizi saltuari sono più efficienti e meno costosi se terziarizzati: non assumo un idraulico perché ogni tanto mi ritrovo con un rubinetto che perde. Insomma, una remunerazione oraria minima garantita, a un livello necessariamente inferiore alle remunerazioni medie, può aver senso anche per la gig economy, a condizione di non concepire mai i freelance come tendenziali dipendenti normali. di Ottavio Lavaggi
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