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Giorgia Meloni resta silente

Giorgia Meloni resta silente

Non siamo su Scherzi a Parte e non cederà Giorgia Meloni alle pressioni interne o esterne: resterà silente, senza anelare a ricevere le stimmate del Palazzo
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Giorgia Meloni resta silente

Non siamo su Scherzi a Parte e non cederà Giorgia Meloni alle pressioni interne o esterne: resterà silente, senza anelare a ricevere le stimmate del Palazzo
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Giorgia Meloni resta silente

Non siamo su Scherzi a Parte e non cederà Giorgia Meloni alle pressioni interne o esterne: resterà silente, senza anelare a ricevere le stimmate del Palazzo
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Non siamo su Scherzi a Parte e non cederà Giorgia Meloni alle pressioni interne o esterne: resterà silente, senza anelare a ricevere le stimmate del Palazzo
No, non siamo su “Scherzi a parte”. È obbligatorio sillabarlo ogni volta che un ministro pretende di stabilire le tariffe delle compagnie aeree. O un altro, inarrivabile, afferma che i poveri mangiano meglio e più sano dei ricchi. O qualche generale vede il mondo al contrario. Non siamo su “Scherzi a parte”, bensì sulla tolda di comando del governo del Paese. E ogni volta, sussurrata la giaculatoria, in tanti si aspettano che la presidente del Consiglio, attribuita di una capacità superiore alla sua ciurma ministeriale, intervenga per dissentire o prendere le distanze. Ogni volta non accade. Giorgia Meloni resta silente, neanche uno spazientito sopracciò o un compunto autodafé. Nessuna meraviglia. Meloni quel tipo di distanza non la prenderà mai, come mai avvierà la costruzione di quella destra liberale e di stampo conservatrice che è nei sogni – belli e impossibili – di alcune élite che amano i whisful thinking e si dilettano con le pie illusioni. Non avviene e non avverrà perché alla Meloni non risulta politicamente e soprattutto non appartiene culturalmente. Quando Gianfranco Fini diede vita ad Alleanza Nazionale si preoccupò principalmente di stabilire un percorso che annettesse la storia della destra post fascista con quella italiana tout court. Le tesi di Fiuggi, scritte da Domenico Fisichella e Gennaro Malgieri, quell’obiettivo avevano: di qui l’antifascismo come valore e Gramsci nel Pantheon dei Padri della Patria. Nulla di tutto questo è rintracciabile nella fondatrice di FdI. In lei, piuttosto, è onnipresente e scatta inesorabilmente il vincolo di comunità, il riflesso condizionato di una enclave che si è sentita esclusa per quanto si è autoesclusa, coltivando una diversità quasi antropologica che poi gli elettori hanno premiato a dismisura. È il senso di appartenenza che prevale, è Atreju da vivere e Tolkien da ossequiare. È l’omaggio ai camerati: tutti i camerati, quelli più estremi e quelli meno, che comunque mai possono essere ripudiati o disconosciuti. Perciò Giorgia Meloni proseguirà il suo percorso politico senza mai anelare a ricevere le stimmate del Palazzo. Ha ben compreso – e questo non era scontato e rappresenta il suo merito maggiore – che pur se siede a Palazzo Chigi certe cose non vanno toccate. Tipo l’atlantismo, il legame con gli Usa e il rapporto non conflittuale con l’Europa. Su tutto il resto la natura di destra fa il suo corso: quella che è, non quella immaginaria. È una responsabilità che ricade sulle spalle della vincitrice delle elezioni. Ma non è l’unica. Un’altra responsabilità ammanta, infatti, l’opposizione. Se la Meloni non interviene a rigettare alcune pulsioni (anche familiari, vedi Giambruno e le ragazze che se non si ubriacano non rischiano di essere violentate), il fronte opposto ha due strade: inorridire e abbaiare alla Luna oppure, allo stesso tempo, impegnarsi a costruire un contenitore politico coeso e credibile, capace di competere con gli animal spirit dell’attuale maggioranza e vincere nelle urne. Niente di tutto questo è all’orizzonte. L’unità trovata nella battaglia sul salario minimo è un simulacro destinato a spezzarsi nel passaggio dagli slogan all’azione in Parlamento. Politica estera in particolare e scelte economiche e valoriali per il resto sono lì in agguato: esploderanno alle Europee. È verosimile che alle elezioni politiche il Pd (se resta Schlein) e il partito di Conte troveranno una qualche intesa elettorale. Ma è difficile immaginare che i centristi di Calenda possano avallarla salvo contraddizioni sanguinose. E dunque, in qualunque articolazione si presenti, alla fine rivincerà il centrodestra, storicamente capace di compattarsi quando si tratta di aprire le urne. I competitor, invece, fanno flanella. di Carlo Fusi

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