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Si scrive Ide ma si legge sviluppo e occupazione

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L’Ide (investimenti diretti esteri) è uno dei principali segnali di salute di un Paese, cioè la capacità di attrarre investimenti esteri e negli ultimi anni i nostri Ide in entrata sono stati appena il 23% di quelli inglesi. 

Si scrive Ide ma si legge sviluppo e occupazione

L’Ide (investimenti diretti esteri) è uno dei principali segnali di salute di un Paese, cioè la capacità di attrarre investimenti esteri e negli ultimi anni i nostri Ide in entrata sono stati appena il 23% di quelli inglesi. 
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Si scrive Ide ma si legge sviluppo e occupazione

L’Ide (investimenti diretti esteri) è uno dei principali segnali di salute di un Paese, cioè la capacità di attrarre investimenti esteri e negli ultimi anni i nostri Ide in entrata sono stati appena il 23% di quelli inglesi. 
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Dagli alsaziani Falck agli svizzeri Jucker, dagli ungheresi Illy al persiano ismaelita Aga Kahn. Bastano alcune famiglie di origine non italiana, quasi prese a caso fra i tanti esempi che si potrebbero fare, per dare l’idea della situazione. Cioè solo per citare i più bei nomi stranieri che hanno dato un significativo contributo imprenditoriale, di conoscenza, industriale e finanziario al made in Italy. E per spiegare quello che gli economisti chiamano Ide (Investimenti diretti esteri) o anche, in inglese, Fdi (Foreign direct investment): indicatori chiave per monitorare il processo di una delle principali forme di internazionalizzazione delle imprese. I nomi citati rappresentano realtà completamente integrate nel nostro Paese attraverso le varie generazioni e sono diventati parte dell’immaginario collettivo italiano. C’è un però. Ogni volta che, dal turismo a qualche altro settore, arrivano investimenti stranieri c’è chi solleva alti lai. Lasciamo da parte, è ovvio, gli assetti proprietari delle società operanti in settori strategici per i quali Draghi, nel marzo 2012, ha introdotto il golden power (ex golden share).  Pensiamo alla Sardegna. Senza l’Aga Khan non esisterebbe di certo la Costa Smeralda come la conosciamo oggi, in grado di attrarre il turismo mondiale di lusso. L’Italia, si sa, è una piazza preziosa per il business internazionale del settore: il primo Paese d’afflusso di turisti provenienti da fuori Ue e il terzo più visitato al mondo (per l’Enit). Sul versante arrivi c’è da ricordare l’eterno fallimento Alitalia (assolutamente da non ripetere con la neonata Ita che deve invece cercare corrette alleanze estere). Da sottolineare, invece, che la capacità di attrarre investimenti esteri è uno dei principali segnali di salute di un Paese perché porta lavoro, sviluppo (diretto, indotto, servizi, consumi et cetera) ed entrate fiscali (Iva, Irap, Irpef). Certo, gli utili netti finali della controllante tornano all’estero, come remunerazione del capitale investito e del rischio, come accade in tutti i mercati che sanno far funzionare bene l’allocazione delle risorse. A livello Ocse c’è un indicatore nel quale noi non brilliamo: negli ultimi anni i nostri Ide in entrata sono stati appena il 23% di quelli inglesi, secondo The European House – Ambrosetti. C’è quindi ancora molto da lavorare per migliorare il livello di attrattività dell’Italia.  di Franco Vergano 

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