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Giovani israeliani

Le minacce che pesano sui giovani israeliani

Gerusalemme. I giovani ventenni israeliani stanno partendo per il fronte e molti di loro non sanno se torneranno. La storia di Tom e Ofek
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Le minacce che pesano sui giovani israeliani

Gerusalemme. I giovani ventenni israeliani stanno partendo per il fronte e molti di loro non sanno se torneranno. La storia di Tom e Ofek
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Le minacce che pesano sui giovani israeliani

Gerusalemme. I giovani ventenni israeliani stanno partendo per il fronte e molti di loro non sanno se torneranno. La storia di Tom e Ofek
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Gerusalemme. I giovani ventenni israeliani stanno partendo per il fronte e molti di loro non sanno se torneranno. La storia di Tom e Ofek
GerusalemmeI giovani ventenni israeliani stanno partendo per il fronte. Molti di loro non sanno se torneranno. Ieri mattina una ragazza quattordicenne di Gerusalemme ha chiamato i suoi compagni di classe per dire che suo fratello di diciannove anni è stato ucciso e decapitato dai terroristi di Hamas. Tom Levenberg, una giovane studentessa universitaria, non riesce più a dormire la notte da quando il suo fidanzato Ofek è stato chiamato come riservista. Soltanto qualche giorno fa lui le aveva chiesto di sposarla e il matrimonio è previsto fra pochi mesi, ma adesso il timore è di non rivederlo. Con le lacrime agli occhi, Tom ha scritto un post su Instagram che racchiude la speranza di ogni israeliano che questa guerra possa terminare il più presto possibile: «Dicono sempre che dopo una guerra nascano più bambini. I soldati tornano a casa dalle loro mogli, che li hanno aspettati angosciate, per costruire un futuro di vita. Dopo una guerra guardi al mondo in maniera diversa, capisci che cosa è importante e che cosa non lo è. Non ti importa più di avere una casa lussuosa, dei mobili eleganti, una macchina nuova, di avere troppi soldi in banca. Niente di tutto ciò ha senso quando perdi un padre, una madre, un fratello, una sorella, un figlio, un amico». Tom ha poi spiegato: «Ofek è partito come riservista, come molti altri nel Paese. Dal momento in cui è uscito dalla porta di casa, la mia anima è andata con lui. Fino a tre giorni fa bisticciavamo sul luogo dove fare il matrimonio, sul menu del rinfresco, sul numero di persone da invitare. Mi arrabbiavo stupidamente se non buttava giù la tavoletta del bagno. Oggi non m’importa più e mi chiedo perché mi preoccupassi di quelle cose. Oggi voglio soltanto che torni per essere accanto a me. Oggi non mi importa di niente se non di rivederlo. Vorrei sposarlo domani, senza un abito bianco da sposa, senza invitati. Solo lui e io». Nel suo post Tom racconta di come tutte le mogli, le madri, le sorelle stiano attaccate alla televisione, al computer, ai cellulari per avere notizie della situazione. Ognuna di loro teme di poter sentire o di leggere, d’un tratto, il nome del loro caro fra la lista dei deceduti. «Sto camminando su e giù per la casa ponendomi le domande più esistenziali sulla morale, sulla vita, sulla morte. La domanda più difficile però è: che cosa accadrà? Non lo so. So soltanto che tutto ha adesso un senso diverso e che posso nutrirmi solo della speranza che dopo questa guerra ci sia la vita». In queste ore, infatti, la parolatikva” (speranza) è la più usata fra la popolazione israeliana. La speranza di vedere la fine delle violenze e di poter riabbracciare le persone a cui si vuole bene, per continuare a vivere come famiglia e come nazione. Come dice l’inno nazionale d’Israele, intitolatoHa Tikva”, «la nostra speranza non è ancora persa». Come Tom, le mogli e le fidanzate dei soldati si stanno organizzando per portare viveri e oggetti di prima necessità al fronte. «Ce la faremo, ci rivedremo, ci riabbracceremo e avremo la nostra desiderata famiglia» scrive Tom.   di Anna Mahjar Barducci

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