Guerra in Medio Oriente, interlocutori inaffidabili
| Esteri
La guerra in Medio Oriente e gli interlocutori inaffidabili. Una proposta di soluzione pacifica della questione palestinese non può che arrivare dall’Occidente

Guerra in Medio Oriente, interlocutori inaffidabili
La guerra in Medio Oriente e gli interlocutori inaffidabili. Una proposta di soluzione pacifica della questione palestinese non può che arrivare dall’Occidente
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Guerra in Medio Oriente, interlocutori inaffidabili
La guerra in Medio Oriente e gli interlocutori inaffidabili. Una proposta di soluzione pacifica della questione palestinese non può che arrivare dall’Occidente
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Una proposta di soluzione pacifica della questione palestinese non può che arrivare dall’Occidente. Che questa fosse la realtà l’avevano dimostrato già le prime dichiarazioni dei leader mediorientali dopo l’attentato di Hamas sotto forma di pogrom contro Israele del 7 ottobre scorso. Su tutte svettava quella inaudita del presidente turco Erdoğan, che ha definito i militanti del gruppo terroristico «combattenti per la libertà». L’hanno confermato i risultati del vertice che si è appena concluso a Riad: non c’è nessuna condanna di Hamas né alcuna proposta di pace, concreta e immediata, che preveda la sicurezza anche di Israele.
Nella capitale saudita quello che l’ha sparata più grossa è stato come al solito l’Iran. Il presidente Raisi ha ‘baciato le mani’ dei capi di Hamas, decretando così cosa significhi, secondo lui, essere un buon musulmano: ammazzare ebrei di ogni età nel modo più feroce e crudele e poi vantarsene. Di certo, con la sua proposta di fare un unico Stato di Palestina dal Giordano al Mediterraneo, ha messo la parola fine a ogni possibilità di coinvolgere Teheran in un progetto di pace che preveda la soluzione dei due Stati, al momento l’unica condivisa da tutti.
A Riad l’Arabia Saudita ha sostenuto la vulgata che gli israeliani si stiano vendicando in modo criminale a Gaza, ma almeno non ha rinnegato gli Accordi di Abramo e ha respinto ipotesi di embargo economico. Al di là della sceneggiata, significa che il principe ereditario Salman è ancora disposto a essere un interlocutore degli occidentali. Ma alla pace potrebbe preferire la guerra, se fosse il sentimento dominante delle piazze. L’alternativa è rischiare di perdere la leadership del fronte sunnita, sempre più insidiata dagli iperattivi turchi.
All’appello manca l’Egitto, ma la sua è una partita sottotraccia. Il presidente al-Sisi sta portando il Paese alle elezioni in dicembre, ma ha scarse possibilità di successo perché l’economia va male e l’elettorato gliene dà la colpa. Americani e israeliani gli hanno chiesto di ospitare nel Sinai gli abitanti di Gaza mentre è in corso l’offensiva e poi di controllare la striscia di terra una volta eliminati quelli di Hamas. Ma lui vuole entrare nella vicenda soltanto in cambio di soldi per risollevare l’economia, altrimenti non gli interessa: il suo elettorato è laico, odia gli integralisti e sta dalla parte dei palestinesi soltanto per conformismo sociale.
Constatata la realtà degli attori mediorientali in campo, all’Occidente non resta che caricarsi dell’incombenza di trovare una soluzione per tutti. È l’esercizio diplomatico in cui si stanno affannando gli Stati Uniti. Il piano è ridurre le vittime civili dell’attacco a Gaza, distruggere Hamas e dare in gestione i palestinesi a qualcuno che sia in grado di garantire la sicurezza di Israele. Per avere successo ci vorrebbe un partner mediorientale che avesse voglia di prendersi delle responsabilità in nome della pace. Ma la sua ricerca, a questo punto, potrebbe rivelarsi una magnifica chimera.
di Alessandro Luigi Perna
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