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“Siamo donne, oltre alle etichette c’è di più”

Essere donne implica anche venire ingabbiate in delle etichette che sminuiscono la persona. Come la velina o la letterina che nel tempo hanno assunto un’accezione denigratoria

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“Siamo donne, oltre alle etichette c’è di più”

Essere donne implica anche venire ingabbiate in delle etichette che sminuiscono la persona. Come la velina o la letterina che nel tempo hanno assunto un’accezione denigratoria

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“Siamo donne, oltre alle etichette c’è di più”

Essere donne implica anche venire ingabbiate in delle etichette che sminuiscono la persona. Come la velina o la letterina che nel tempo hanno assunto un’accezione denigratoria

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Essere donne implica anche venire ingabbiate in delle etichette che sminuiscono la persona. Come la velina o la letterina che nel tempo hanno assunto un’accezione denigratoria

La corretta riuscita di un trucco di magia, si sa, è tutta nelle mani dell’assistente. Mentre il pubblico si lascia ammaliare dai discorsi sensazionali del mago, sullo sfondo sono le assistenti ad agire, senza avere voce in capitolo. Letteralmente, senza poter aprir bocca.
Ed è questo che si traduce, si moltiplica e si amplifica in televisione, dove le luci puntate in centro studio
non lasciano spazio di azione – e di parola – a chi è sempre stata lasciata in secondo piano. E alle dipendenze di qualcun altro. Le donne, non solo dello spettacolo, sembrano vivere sempre più spesso una condizione di inferiorità e di pregiudizio per una caratteristica fisiologica: l’essere donna.
È bastata la sentenza di primo grado per assolvere Fabrizio Cherubini, l’ex compagno di Alessia Fabiani, accusato dall’ex Letterina per lesioni e maltrattamenti. Un esposto che non solo ha portato Fabiani a essere indagata per falsa testimonianza, ma che pare mettere in cattiva luce showgirl e attrici. Non è la sola a pensare di subire i pregiudizi di un pubblico, e di una fetta di opinione pubblica italiana, restia a dare voce in capitolo alle donne della televisione.

«Sono passata dall’essere una “velina ingrata” al Tribunale di Milano che mi ha negato ogni diritto. Cosa facevo? Subivo ed è difficile combattere contro il potere e la stampa […]», ha spiegato Veronica Lario, ex moglie di Silvio Berlusconi dal 1990 al 2009, a «A cena da Maria Latella», durante la trasmissione mandata in onda venerdì 1° marzo.
Dichiarazioni, quelle di Fabiani e Lario, che sono l’ennesima testimonianza, seppur meno estremista, di un pregiudizio verso il genere femminile che viene presentato di frequente come “l’altra faccia della
medaglia”, quindi dipendente dalla figura maschile.

Sulla scia dell’attenzione mediatica sul tema del femminicidio, trasmettere questo tipo di messaggio,
indipendentemente dal corso della giustizia, è pericoloso. Dall’inizio dell’anno al 4 dicembre 2023 in Italia
sono stati commessi 303 omicidi, con 109 vittime donne, di cui 90 uccise in ambito familiare/affettivo; di
queste, 58 hanno trovato la morte per mano del partner o dell’ex. Rispetto allo stesso periodo dell’anno
scorso, il numero delle vittime di genere femminile è calato del 6% (un anno fa erano state 116) ma è salito del 5% (da 55 a 58) quello delle vittime del partner o dell’ex. Un trend positivo, che poco coincide con il sentimento e la percezione di un aumento generalizzato di femminicidi.
Ma allora, se da una parte i dati ci consegnano una situazione migliore del previsto, perché l’essere definita «velina ingrata» ha comunque delle conseguenze? Come a suggerire che il solo fatto di essere stata al fianco dei conduttori del piccolo schermo rappresenti una condizione di inferiorità e quindi un’etichetta dispregiativa.
Inoltre, l’essere spettatori di una simile sentenza, che di fatto ha ribaltato drasticamente le condizioni
iniziali, passando dall’essere vittima a indagata, è un possibile deterrente a denunciare. E non deve essere la normalità. Questo è un campanello d’allarme che non può e non deve essere trascurato.

Di Marta Colazzo

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