Il mio impareggiabile Lelio Luttazzi
Giusto quattordici anni fa se ne andava Lelio Luttazzi. Il racconto della moglie Rossana
Il mio impareggiabile Lelio Luttazzi
Giusto quattordici anni fa se ne andava Lelio Luttazzi. Il racconto della moglie Rossana
Il mio impareggiabile Lelio Luttazzi
Giusto quattordici anni fa se ne andava Lelio Luttazzi. Il racconto della moglie Rossana
Giusto quattordici anni fa se ne andava Lelio Luttazzi. Il racconto della moglie Rossana
Giusto quattordici anni fa se ne andava Lelio Luttazzi. Ovvero l’eleganza, l’ironia, la genialità, il garbo, la professionalità, l’amore per la musica fatti persona. E chissà quante altre cose ancora avrebbe potuto essere, se solo il destino – con il corpo di investigatori ottusi e la mente di magistrati sciatti – non gli avesse sconquassato la vita dalle fondamenta trascinandolo in un errore giudiziario che grida tuttora vendetta.
C’è stato un momento in cui l’Italia era ai piedi (felice di esserlo) di questo gentiluomo triestino un po’ showman e un po’ cantante, un po’ attore e un po’ presentatore tv, un po’ conduttore radiofonico e un po’ scrittore. Ma sempre tanto, tanto musicista. «In genere chi fa troppe cose insieme tende a farle male. Invece a lui riusciva tutto e riusciva anche bene. Sarà perché esigeva sempre molto da sé stesso, fatto sta che qualunque cosa toccasse si trasformava in oro» ci dice la moglie Rossana, che accetta volentieri di fare due chiacchiere con “La Ragione” «perché non è così frequente che ci si ricordi di Lelio». Un Paese con poca memoria che sembra essersi dimenticato di Luttazzi protagonista di un’epoca d’oro (seppure in bianco e nero) durante cui conduceva “Studio Uno”, scriveva “Una zebra a pois” per Mina o le musiche per “Totò, Peppino e la… malafemmina”, incantava l’Italia con il suo piano e i suoi brani rigorosamente swing. Uno così avresti detto fosse indistruttibile. E invece.
Marzo 1970, l’amico del cuore Walter Chiari – altro indiscusso numero uno dello spettacolo di quel periodo – telefona a casa Luttazzi dall’Hotel Baglioni di Bologna. Lelio non c’è, dunque lascia un messaggio alla governante: «Non riesco a contattare questo mio amico, potrebbe chiedere al Maestro di chiamarlo per dirgli che lo sto cercando?». Luttazzi chiama lo sconosciuto, riferisce l’ambasciata di Chiari, poi non ci pensa più. Due mesi dopo la Guardia di Finanza lo verrà a prelevare nella sua casa romana con destinazione il carcere di Regina Coeli. L’uomo a cui Chiari gli aveva chiesto di telefonare era in realtà uno spacciatore, dunque gli inquirenti si convinsero che anche Luttazzi fosse nel giro della droga. Restò per quindici giorni in una cella di isolamento lunga tre metri per uno e mezzo, senza neanche sapere il perché. In tutto 27 giorni di ingiusta detenzione che lo cambiarono per sempre. «Ci conoscemmo cinque anni dopo, ma portava ancora addosso i segni di quell’esperienza. Per anni la notte si è svegliato in preda agli incubi, lo aiutavo a trovare sollievo appoggiandogli del ghiaccio sulla fronte sudata» ricorda la moglie. Del Luttazzi mattatore era rimasto ben poco: si era gradualmente chiuso in sé stesso, rifiutava proposte su proposte. Pensava soltanto a scrivere («Era la sua terapia») e a suonare il suo pianoforte. Del resto, già pochi mesi dopo essere stato scarcerato era stato chiaro: «Comunque vada a finire questa fetida storia, uno come me non avrà più voglia di sorridere. Mai più… Io non ho paura della morte, ma della vita». Dal suo libro “Operazione Montecristo” (scritto in carcere) fu tratta la sceneggiatura di “Detenuto in attesa di giudizio” di Nanni Loy con Alberto Sordi, per dire.
Chiedere scusa non è prerogativa italica, almeno in storie come questa. Non lo fece Walter Chiari (di cui Luttazzi raccontò che «non alzò un dito per scagionarmi, anzi abbinò i nostri due nomi come vittime della stessa ingiustizia. In nome del vecchio affetto tacqui, ma da allora non l’ho più voluto vedere»), non lo fecero le istituzioni: «Non si è mai fatto vivo nessuno, neanche in modo informale. Soltanto silenzi, neanche imbarazzati» sottolinea la signora Luttazzi, che oggi guida la Fondazione omonima per mantenere viva la memoria del Maestro. «Lelio era avanti, in tutto. Non sopportava l’idea che, se un magistrato sbaglia, non paga mai; era a favore già cinquant’anni fa dei test psicologici per giudici e pm; non tollerava lo scempio delle intercettazioni sbattute sui giornali anche se irrilevanti per l’indagine. E detestava ogni eccesso di vanagloria: “Sono un pessimo spettatore del protagonismo altrui” diceva di sé con la sua solita ironia agrodolce. Manca tantissimo a me, dovrebbe mancare a tutti gli italiani».
di Valentino Maimone
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