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Ismail Haniyeh, obiettivo centrato

Non si centra un bersaglio come Ismail Haniyeh senza la collaborazione di una sponda iraniana: una promessa di morte ora realizzata

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Ismail Haniyeh, obiettivo centrato

Non si centra un bersaglio come Ismail Haniyeh senza la collaborazione di una sponda iraniana: una promessa di morte ora realizzata

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Ismail Haniyeh, obiettivo centrato

Non si centra un bersaglio come Ismail Haniyeh senza la collaborazione di una sponda iraniana: una promessa di morte ora realizzata

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Non si centra un bersaglio come Ismail Haniyeh senza la collaborazione di una sponda iraniana: una promessa di morte ora realizzata

Non si centra un bersaglio come Ismail Haniyeh senza la collaborazione di una sponda iraniana. Il capo di Hamas è stato un seminatore di odio e di morte, la cui eliminazione era stata promessa. Ora è stata realizzata. Ma l’essere stato colpito a Teheran, dopo che la sua presenza era stata annunciata per la cerimonia d’insediamento del nuovo presidente iraniano, e l’essere stato colpito con quella precisione non racconta della rispettata promessa di cancellarlo ma piuttosto della compartecipazione di un pezzo del sistema iraniano. Nessun sistema, per quanto dispotico, è monolitico. Ma qui la divisione attraversa una questione cruciale del ruolo iraniano.

Gli sciiti iraniani non si sono fatti scrupolo di sostenere i terroristi sunniti di Hamas. Della sorte del popolo palestinese agli iraniani interessa zero, mentre quelli di Hamas sperano che Israele ne ammazzi il più alto numero possibile perché il loro potere è eretto sul sangue, sui cadaveri e sulla miseria dei palestinesi. La più grande potenza sciita finanzia la più spietata formazione sunnita perché in questo modo – sollecitando le stragi israeliane per le rappresaglie – intende opporsi alle potenze sunnite (come Emirati e Arabia Saudita) che intendono incamminarsi sulla strada che già percorrono i vecchi nemici mortali di Israele, come Egitto e Giordania: la strada della pace e della convivenza. Gli iraniani sciiti pagano i sunniti di Hamas per combattere i sunniti più forti. Ecco perché i funerali di Haniyeh non saranno vissuti come un lutto in gran parte del mondo musulmano. Ed ecco perché gli autori dell’operazione possono sempre dire che altri avevano ben maggiore interesse del loro a che il macellaio fosse eliminato.

Tendiamo sempre a credere d’essere noi il centro del mondo e i destinatari dell’odio fondamentalista, in questo caso veniamo dopo l’odio che coltivano fra di loro. Lo stesso Israele viene dopo, essendo più un pretesto che il reale oggetto del contendere. Questo non significa che ce ne possiamo disinteressare, semmai il contrario: perdere il controllo – quanto meno delle informazioni – in Medio Oriente significa perdersi anche l’indirizzo di casa propria. E noi italiani dovremmo saperne molto. Non possiamo permetterci il distacco, non possiamo neanche pensare alla guerra come strumento politico. I risultati della diplomazia, in quella parte del mondo, si vedranno sempre nel decennio successivo, quale che sia il decennio in corso.

Per questo abbiamo bisogno di classi dirigenti capaci di pensare in un tempo lungo, avendo studiato con attenzione quello passato. Il governo israeliano di Netanyahu è diventato un problema (in Israele come per le democrazie occidentali) perché il suo orizzonte temporale è quello della guerra. Una guerra legittima – la reazione a una aggressione subita, la risposta in terra libanese agli attacchi che arrivano dal Libano – ma che è anche il collante che regge il governo. Mentre Israele e gli interessi occidentali richiedono che si sia spietati con i nemici della convivenza civile e sempre disponibili al compromesso. Le due cose non sono in contraddizione. Ma oggi quel governo non può permettersi il compromesso.

A Riad non si è a lutto, figuriamoci a Gerusalemme. A Teheran si è segnalato che c’è chi, nel mondo iraniano, lavora contro il potere interno che ha schierato l’Iran nell’Asse malato, con Russia e Corea del Nord. C’è molto materiale per il lavoro delle diplomazie e delle agenzie d’informazione. Ma servono classi dirigenti che comprendano la trama che unisce i teatri di guerra, che ne tracci la comune finalità antioccidentale e che non siano costrette a fare guerre per potere restare al loro posto. E serve che l’opinione pubblica sia consapevole che la pace non consiste affatto nel fermare i conflitti armati cedendo le regioni degli aggrediti, come i falsi pacifisti vorrebbero in Ucraina, perché in quel modo ci si garantisce solo una guerra successiva e peggiore. Dentro casa.

di Davide Giacalone

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