Pep, il genio caduto
L’ossessione spesso è la leva per l’immortalità sportiva, ma nei confronti di Guardiola non si sta esagerando? Debolezze, manie o semplicemente un uomo?
Pep, il genio caduto
L’ossessione spesso è la leva per l’immortalità sportiva, ma nei confronti di Guardiola non si sta esagerando? Debolezze, manie o semplicemente un uomo?
Pep, il genio caduto
L’ossessione spesso è la leva per l’immortalità sportiva, ma nei confronti di Guardiola non si sta esagerando? Debolezze, manie o semplicemente un uomo?
L’ossessione spesso è la leva per l’immortalità sportiva, ma nei confronti di Guardiola non si sta esagerando? Debolezze, manie o semplicemente un uomo?
Pep il cattivo, Pep con il rigurgito da adolescente, Pep che non sa perdere. Il popolo degli adulatores scappati di colpo dalla barca di Guardiola – ricordiamo, il tecnico più vincente della storia, ma non è l’elemento dirimente della vicenda – punta ancora il dito sulla controversa conferenza stampa successiva al pareggio del Manchester City con il Feyenoord in Champions League, con gli inglesi in crisi nera che si sono fatti recuperare 3 reti in pochi minuti dagli olandesi.
Uno smacco per Pep, disperato al fischio finale per il pari, per il periodo nero della sua squadra e che si è presentato alla stampa lacero e prostrato: scippi sul naso e sul capo, spiegando ai cronisti che non gli piace perdere e per questo si è fatto del male. Apriti cielo. Certo, Guardiola è andato un filo oltre e in questo senso vanno interpretate le scuse successive alla conferenza stampa, con riferimento all’importanza del tema della salute mentale, che non va mai dimenticato. Detto questo, non si sta esagerando? Quel dito puntato contro Guardiola tiene conto che esistono le debolezze, le manie, il cosiddetto lato B di uno sportivo a cinque stelle o semplicemente di un uomo?
Nessuno ormai perdona nulla a nessuno. E’ un dato certificato dalla furia dei messaggi social a carico del tecnico spagnolo, preso di mira anche da penne e voci illustri, che forse hanno rimosso quanto la letteratura sportiva abbia da offrire sui fuoriclasse ossessivi, corrosivi, che portano il loro lavoro all’estremo per ottenere il massimo, consumati dall’esigenza della perfezione, non solo come forma di soddisfazione di se stessi ma proprio come approdo insopprimibile, inevitabile del loro lavoro. L’ossessione spesso è la leva per l’immortalità sportiva. Per fortuna, non connota tutti, o meglio non tutti la trasportano all’esterno. Guardiola come Michael Jordan, come Kobe Bryant, come Michael Phelps, come Andrè Agassi. Solo per fare qualche nome. Dietro a queste stelle c’è l’altro lato della luna, c’è la sfida eterna con se stessi: c’è stato Jordan che ha umiliato i compagni di squadra per elevarne il livello sul parquet, c’è Bryant che non accettava di iniziare ad allenarsi in ritardo rispetto ai colleghi che vivevano sulla costa atlantica degli Stati Uniti e quindi era sveglio alle 4.30 a Los Angeles, per colmare il fuso orario con New York, Boston e che, se un compagno di squadra tirava fino all’alba, nell’allenamento mattutino lo perseguitava in una sessione insostenibile di uno contro uno.
E c’è Guardiola che sulla perfezione, sulla conoscenza, sul maniacale dettaglio tattico, ha costruito una carriera ventennale e per questo è stato celebrato: dal “falso nueve” al Barcellona ai terzini che diventano mezzali, le sue invenzioni sono portate in giro da decine di tecnici. Pep il genio ora invece è caduto in disgrazia, mentre – forse – sarebbe “solo” il caso di evitare celebrazioni e cadute, prendendo questi fenomeni di sport per quel che sono. Uomini, con pregi e debolezze, picchi e cadute.
Di Nicola Sellitti
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