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Tornare ai fantasmi di Monaco

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A volte l’ironia amara e pungente della Storia lascia senza fiato: che il primo appuntamento delle diplomazie americana ed europea dopo la “lunga e cordiale” telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin si tenga a Monaco di Baviera ha dell’incredibile

Monaco di Baviera

Tornare ai fantasmi di Monaco

A volte l’ironia amara e pungente della Storia lascia senza fiato: che il primo appuntamento delle diplomazie americana ed europea dopo la “lunga e cordiale” telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin si tenga a Monaco di Baviera ha dell’incredibile

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Tornare ai fantasmi di Monaco

A volte l’ironia amara e pungente della Storia lascia senza fiato: che il primo appuntamento delle diplomazie americana ed europea dopo la “lunga e cordiale” telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin si tenga a Monaco di Baviera ha dell’incredibile

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A volte l’ironia amara e pungente della Storia lascia senza fiato: che il primo appuntamento delle diplomazie americana ed europea dopo la “lunga e cordiale” telefonata fra Donald Trump e Vladimir Putin si tenga a Monaco di Baviera ha dell’incredibile.

Monaco, la città divenuta il simbolo degli effetti nefasti del cedimento delle democrazie alla protervia delle dittature. Monaco, la città che ospitò il lugubre vertice del 1938 da cui il povero e illuso premier britannico Neville Chamberlain tornò sbandierando il famigerato “pezzo di carta“, mentre Hitler otteneva tutto ciò che voleva e anche di più e Mussolini masticava amaro per essersi visto appioppare dall’opinione pubblica italiana l’etichetta di “araldo della Pace“.

Monaco, monito imperituro, lezione tragica, simbolo di una Storia che sembriamo aver deciso di dimenticare.

In quell’infausta occasione di 87 anni fa, si doveva decidere il destino della Cecoslovacchia, su cui aveva allungato le grinfie il dittatore nazista con la scusa della minoranza tedesca dei Sudeti.

La spartizione della vittima sacrificale, di uno Stato sovrano riconosciuto da tutti i convenuti nella capitale bavarese, avvenne senza che i rappresentanti cechi fossero neppure ammessi nelle stanze dei colloqui, dove imperversavano i due dittatori dell’asse Roma-Berlino. Fatto l’accordo, definita la spartizione, tirato il sospiro di sollievo – cinico e gravido delle peggiori conseguenze – al povero presidente cecoslovacco Edvard Benes, semi infartuato e dimenticato, fu consegnato un pezzo di carta da firmare e rispedito a casa ad attendere il compimento del suo destino.

Oggi la realtà che si spiana davanti a noi è quella di una trattativa diretta fra il presidente degli Stati Uniti d’America e il dittatore russo. Trattativa dalla quale l’oggetto – l’Ucraina – è stato tenuto completamente escluso, fuori dalla porta esattamente come allora. Il presidente ucraino Volodymyr Zelensky ha ricevuto una sbrigativa telefonata dal capo della Casa Bianca, in cui è stato comunicato l’avvio delle trattative di pace. Fra Stati Uniti e Russia, si intende.

Non si sa su quali basi, con quali scopi reali e pratici, oltre la generica affermazione di “voler far finire la guerra”. Zelensky ha abbozzato, mostrando tempra politica notevole, ma resta che il modo più veloce per far finire una guerra è quasi sempre perderla o darla vinta a chi l’ha cominciata.

Conta il principio che si annuncia: se Kiev vuole l’amicizia e il sostegno americani dovrà pagare. I corifei del Presidente disegnano un avvenire di grandezza ma durante gli ottant’anni di impero americano gli Usa i nemici li mettevano in riga, non li lasciavano vincere. Sicuro che questo sia Maga e non un futuro ben più piccolo – smaller – per gli States?

Dopo la chiacchierata fra vecchi amici Trump-Putin, l’unica voce severa che abbiamo ascoltato è arrivata dalla piccola Lituania. Da quelle parti sanno benissimo cosa significhi dar da mangiare all’orso.

di Fulvio Giuliani

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