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Fase racconta “Fiamme”: “Canto il peso delle dipendenze”

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Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fase per conoscere meglio la storia dietro a “Fiamme”, il suo nuovo singolo

Fase

Fase racconta “Fiamme”: “Canto il peso delle dipendenze”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fase per conoscere meglio la storia dietro a “Fiamme”, il suo nuovo singolo

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Fase racconta “Fiamme”: “Canto il peso delle dipendenze”

Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fase per conoscere meglio la storia dietro a “Fiamme”, il suo nuovo singolo

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Uscita qualche giorno fa sulle piattaforme di streaming, “Fiamme” rappresenta un nuovo capitolo della carriera di Fase, nome d’arte del cantautore Valerio Urti.

Fiamme esplora il tema della dipendenza in senso ampio: un legame tossico con qualcuno o qualcosa da cui è difficile liberarsi. Incatenato a una sensazione negativa, l’artista si rivolge a una figura esterna — che può rappresentare sé stesso o un’entità superiore — alla ricerca di una salvezza, di una via d’uscita che da solo non riesce a trovare.

Fiamme è una richiesta d’aiuto, ma anche un atto di coraggio. È il racconto di una rinascita, una fiammata interiore che brucia le catene invisibili per lasciare spazio a una nuova consapevolezza. Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con Fase per conoscere meglio la storia dietro a questo brano

Com’è nata “Fiamme”?

Questo singolo nasce da una chiacchierata serale con un’amica. Mi stava raccontando alcune cose molto personali. Si parlava di dipendenze — e qui ci ricolleghiamo al tema di “Per come sei tu”, che era il mio primo singolo e parlava degli attacchi di panico.

Lei soffre di questa cosa. È diventata mia amica proprio dopo l’uscita del pezzo, perché ha iniziato a scrivermi in DM, a condividere esperienze, eccetera. E, chiacchierando, è venuto fuori tutto un mondo legato alle dipendenze. Nel suo caso si trattava di una dipendenza da psicofarmaci leggeri, tipo tranquillanti. Ma mentre ne parlavamo, mi è venuto da pensare: perché non parlarne in una canzone?

In fondo io ho sempre cercato, in qualsiasi fase della mia carriera, di affrontare temi che vadano un po’ oltre la superficie. Di scavare più a fondo. Così ho deciso di scrivere un testo, un brano che parlasse di dipendenze — non in modo specifico o limitato, ma in senso più ampio.

Chi ascolta il brano è libero di ritrovarsi dove vuole, nel tema. Le dipendenze non sono solo quelle raccontate quella sera. Possono essere da droghe, da persone, da relazioni tossiche… da qualsiasi cosa che in apparenza ci fa sentire felici, ma che nel profondo ci svuota. Anche la felicità, se ci pensi, può diventare una dipendenza. Bisogna vedere se è una felicità pura, che nasce da dentro di noi, oppure se è una felicità che dipende da qualcosa o qualcuno, qualcosa che ci “dà” serotonina solo perché pensiamo di non averne abbastanza da soli.

Il brano si chiama “Fiamme” proprio per questo: racconta il fuoco che serve per uscire da una dipendenza — da qualcosa o da qualcuno — e tornare a essere sé stessi. Quando parlo di “un’ora di sole” o “un bagno di rose” e poi “bombe plastiche”, è proprio per dare quell’idea di un’esplosione emotiva, di tutto quello che ci fa star bene. Ma che dobbiamo riconoscere e gestire, se vogliamo stare davvero bene.

Sono tematiche importanti. È un bene che se ne canti, anche perché, pur essendo un periodo in cui certi argomenti sono trattati più di prima, forse non è mai abbastanza

È sempre un po’ un tabù. Perché finiamo per rimandare sempre il solito discorso: la vergogna di parlare di qualcosa che, in realtà, è normale. E invece, più se ne parla, più quel tabù si esorcizza, si alleggerisce.

Le dipendenze, come tanti altri temi delicati, vengono spesso messi a tacere. Ma io, nei miei testi, cerco sempre di sfatare questi tabù, di portarli alla luce, renderli oggetto di confronto, di discussione. In fondo, più li rendiamo parte del dialogo comune, più diventano gestibili.

Poi certo, ogni persona farà del testo quello che vuole ed è proprio questo il bello. Quando scrivi un pezzo, è inevitabile metterci qualcosa di tuo. Ma poi arriva un momento in cui devi lasciarlo andare, permettere che faccia la sua strada. Se qualcuno si ritrova in una frase, in un verso, anche solo in una sensazione… allora il pezzo ha già fatto il suo lavoro.

Ci racconti com’è stato presentare il singolo a Milano?

Tornare a presentare il brano a Milano per me è importante. È una città a cui tengo particolarmente, una piazza fondamentale per cercare di consolidare il mio percorso artistico e dare continuità a tutte le fasi che mi hanno portato fino a Fiamme — dal primo singolo a oggi.

Fiamme è una sorta di chiave. Una tappa importante che apre la porta a quello che sarà il disco. Un lavoro che, pur essendo diverso sotto tanti aspetti, è molto vicino a Fiamme sia nel sound che nelle tematiche. Se nei singoli precedenti ho raccontato storie e temi più ampi, nel disco vado a toccare corde decisamente più personali.

Sarà un progetto più autobiografico, più intimo. Ma credo anche che, pur partendo da un’esperienza individuale, ci ritroviamo tutti a far parte dello stesso grande mondo — ed è bello pensare che ognuno possa riconoscersi, in qualche modo, nella mia storia.

Si veleggia verso un disco

La scelta di far uscire dei singoli è stata pensata fin dall’inizio del progetto. Avevo bisogno di carburare, di trovare davvero la mia cifra artistica lungo il percorso. Crescendo, quella cifra l’ho trovata — anche se, a dire il vero, è sempre stata lì, più o meno definita sin dagli esordi. A parte un’uscita un po’ fuori dai binari come “Nena”, che aveva un’impronta più estiva, tutto il resto ha seguito un percorso coerente.

Ora siamo arrivati al dunque. Dopo cinque o sei singoli, sento che è arrivato il momento naturale per passare al disco. C’è proprio un’esigenza artistica, ma anche personale. Io sono molto legato al concetto di album: purtroppo oggi c’è sempre meno cultura del disco fisico, e temo che col tempo sparirà sempre di più. Ma per me resta qualcosa di fondamentale.

Vengo da quel mondo lì, me lo porto dietro grazie ai miei genitori. Ricordo quando prendevo i dischi di mio padre… c’era quell’odore, quell’esperienza fisica che passava anche dal libretto, dalle pagine da sfogliare. Era un gesto rituale, quasi sacro. E quella cosa lì mi manca. È un’emozione che oggi si sta perdendo, anche se forse — lentamente — qualcosa si sta recuperando.

Il mondo artistico, secondo me, dovrebbe tornare a quelle sfumature. Quelle piccole cose che ti fanno apprezzare la musica in un modo più profondo. Siamo sulla buona strada, ma non è ancora quella giusta.

di Federico Arduini

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