Folkstone raccontano “Natura morta”: “Il nostro urlo romantico”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Folkstone sul loro ultimo disco in studio “Natura morta”

Folkstone raccontano “Natura morta”: “Il nostro urlo romantico”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Folkstone sul loro ultimo disco in studio “Natura morta”
Folkstone raccontano “Natura morta”: “Il nostro urlo romantico”
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con i Folkstone sul loro ultimo disco in studio “Natura morta”
È disponibile da qualche giorno “Natura Morta”, il nuovo doppio album dei Folkstone. Dall’anima malinconica e autentica, ma al tempo stesso potente e carico di energia, il disco si arricchisce di collaborazioni importanti, tra cui i Modena City Ramblers in Fragile, Trevor Sadist in Mediterraneo, Daridel in Mala Tempora Currunt e i Punkreas in La Fabbrica dei Perdenti.
La musica intreccia sonorità antiche e suggestive — cornamuse, arpe e altri strumenti che sanno evocare epoche lontane — mentre i testi restano saldamente ancorati al presente. Ogni brano racconta frammenti di umanità con uno sguardo non giudicante, ma profondamente empatico, dalla prima all’ultima parola.
Ne emerge un ritratto ironico, romantico e disilluso delle nostre vite e del mondo che ci gira intorno.
Abbiamo scambiato quattro chiacchiere con la band per sapere l’origine di questo nuovo progetto
Come nasce questo disco?
È nato in modo abbastanza naturale. Dopo la reunion che abbiamo fatto nel 2023, abbiamo registrato un singolo, e da lì abbiamo cominciato a scrivere altri pezzi, anche se inizialmente non era nei piani fare un album, figuriamoci un doppio album! Abbiamo un po’ esagerato, dai…
Per quanto riguarda il mood dell’album, per noi è una sorta di urlo romantico. Un urlo che, secondo noi, merita un po’ di tempo, un po’ di ascolto. Ci sono 16 brani, quindi non segue la logica del singolo, singolo, singolo… come va di moda oggi. E in tanti ci hanno detto che siamo pazzi a fare una cosa del genere, perché ormai non lo fa più nessuno. Già pubblicare un album con solo due singoli è raro. Figuriamoci uno da 16 pezzi! Volevamo tornare a un modo più lento di ascoltare la musica, di percepirla, di capirne il significato. Un approccio più passionale, perché viviamo davvero in un momento molto materialista e il nostro vuole essere un piccolo gesto controcorrente.
Voi scrivete per scelta in italiano. E dire che nel vostro genere di riferimento non è una scelta così battuta
Molti scrivono in inglese perché pensano di darsi un respiro più internazionale, di avere qualche chance in più, e ci può stare. Però questa cosa, a noi, non è mai appartenuta davvero. Quello che abbiamo sempre voluto è essere sinceri e onesti nel modo in cui ci esprimiamo, soprattutto nella musica.
Perché, diciamolo: almeno nella musica cerchiamo di essere veri.
Tanto lo sappiamo bene che nella vita quotidiana, volenti o nolenti, indossiamo mille maschere: tra lavoro, relazioni sociali, ruoli diversi… E allora almeno nella musica vogliamo togliercele quelle maschere. Vogliamo essere autentici. Cantare in italiano ci aiuta proprio in questo perché è la lingua che conosciamo meglio, quella con cui abbiamo più padronanza.
Quando vuoi richiamare un’immagine, un concetto, e vuoi farlo in modo preciso, diretto, viscerale… usare la lingua che ti appartiene rende tutto più naturale. E poi l’italiano è una lingua bellissima.
Per quanto riguarda l’aspetto tematico, mi ha colpito molto quello che raccontate nel disco. Parliamo di 16 brani, che sono tanti, ma che riescono comunque a toccare molti aspetti della vita quotidiana, delle difficoltà, delle sfide che tutti affrontiamo. C’è una profondità notevole nei testi, si va a fondo in tante direzioni.
Come lavorate alla costruzione dei brani?
Crediamo che il vero filo conduttore sia la vita vissuta. Non abbiamo mai inventato storie. Anche in questo album abbiamo fatto quello che facciamo sempre: raccontare il nostro vissuto.
Siamo molto viscerali, molto passionali. Quello che viviamo ci piace sentirlo fino in fondo, elaborarlo e poi trasformarlo in parole e musica. È un modo per guardare il mondo da dentro, con i nostri occhi. Ci sono artisti che parlano di altri contesti, geopolitica, storie inventate… noi invece partiamo sempre da noi stessi, da ciò che ci riguarda
La vostra musica è molto contaminata, dal folk nostrano fino a strumenti tipici di altre tradizioni musicali. Da dove nasce questa scelta?
È una cosa che nasce da lontano. Parliamo del 2004, agli inizi. Ricordo che avevo comprato un CD allegato a una rivista, si chiamava Psycho Sonic — me lo ricordo ancora bene. In quella compilation c’era un brano degli Extreme, che erano appena usciti, e un altro di un gruppo tedesco che faceva rock contaminato con cornamuse medievali.
Sono rimasto folgorato da quell’ascolto. Mi sono detto: “Cavolo, fammi andare a vedere se anche da noi esiste qualcosa di simile. Una cornamusa, uno strumento tradizionale che possiamo riscoprire e contaminare col rock.” All’epoca già suonavo — mi definisco un chitarrista fallito, ma comunque strimpellavo chitarra e basso. Così ho iniziato a fare ricerche.
Scopro che da noi, in Bergamasca, c’è uno strumento tradizionale chiamato baghèt — una sorta di piva usata dai pastori. Da lì ho iniziato da autodidatta, poi ho coinvolto i miei amici… ho cominciato a rompere i maroni a tutti, insomma, con questa idea.
Alla fine ci siamo ritrovati in tre a studiare e approfondire questi strumenti. Poi siamo passati agli strumenti medievali, abbiamo studiato le cornamuse scozzesi, la ghironda, i flauti… (Lorenzo “Lore” Marchesi, vode della band)
Come sono nati i diversi feat del disco?
Ogni volta che scrivevamo un nuovo pezzo, ci veniva spontaneo pensare a chi potesse accompagnarci, con chi potesse funzionare una collaborazione. Seguiamo i Modena City Ramblers da sempre, da tempi immemori. Ricordo ancora concerti visti quando avevo vent’anni.
Quando abbiamo scritto Fragile, ci è venuto subito da pensare a loro. È stato quasi automatico.
Gliel’abbiamo mandata e loro sono stati gentilissimi: sono venuti direttamente da Parma per registrare il brano con noi. È stato davvero bello, un momento speciale. Musicisti con la M maiuscola, hanno portato con sé tutto il loro mondo sonoro, strumenti folk che ci accomunano e che rispecchiano una parte importante della nostra identità musicale.
Lo stesso è successo con i Punkreas: avevamo già fatto un concerto insieme l’anno scorso e abbiamo pensato a un nostro brano, forse quello più “panettone”, diciamo più diretto e punk, e glielo abbiamo proposto. Anche loro sono stati entusiasti. In una settimana, sette-otto giorni al massimo, ci hanno rimandato indietro la strofa già registrata. Poi c’è anche Trevor dei Sadist, che rappresenta l’anima più metal del progetto.
Sono tutte collaborazioni con gruppi e artisti che in un modo o nell’altro hanno fatto parte del nostro percorso, della nostra formazione, delle nostre influenze.
Non ci siamo mai limitati a un solo genere: ci piace ascoltare a 360 gradi, senza paraocchi.
L’idea era che ogni featuring potesse rappresentare un lato diverso dell’anima del disco: c’è l’anima folk, quella punk, quella metal, quella più acustica. E grazie a tutti questi artisti, ognuna di queste sfumature ha trovato il modo giusto per emergere.
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Tag: musica, Musica italiana
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