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Boris e noi

Quanto accaduto a Boris Johnson mostra le modalità differenti di fare politica: se sbagli ne paghi le conseguenze, in Italia no.
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Quanto accaduto a Boris Johnson mostra le modalità differenti di fare politica: se sbagli ne paghi le conseguenze, in Italia no.
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Quanto accaduto a Boris Johnson mostra le modalità differenti di fare politica: se sbagli ne paghi le conseguenze, in Italia no.
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Quanto accaduto a Boris Johnson mostra le modalità differenti di fare politica: se sbagli ne paghi le conseguenze, in Italia no.
So long, Boris. Il premier inglese lascia la guida del partito ma resterà in carica fino all’autunno, quando verrà deciso il suo successore. Può essere che in tre-quattro mesi si materializzi qualcosa di imprevisto, ma tutto lascia immaginare che la sua permanenza a Downing Street sia un fatto solo formale e un ineluttabile The End segni la sua parabola politica. BoJo lascia e non l’hanno salvato né la sua gorgonica capigliatura né la disinvoltura con la quale ha esercitato il suo mandato. Ha stravinto le elezioni del 2019 e colto successi pure nelle amministrative dello scorso anno. Ma si è letteralmente bevuto il consenso popolare guadagnato, al punto che a pugnalarlo sono stati i suoi amici Tory. Qualcuno l’ha fatto per invidia o vendetta, ma la maggior parte ha semplicemente rispettato le regole. Quello che sta segnando Johnson, infatti, è nient’altro che il destino che hanno subìto leader ancor più strutturati di lui: dalla mitica Lady di ferro Margaret Thatcher al Giove laburista Tony Blair; dal conservatore David Cameron (politicamente assassinato dalla Brexit che lui stesso aveva promosso) al “sinistro” Jeremy Corbin, travolto da un oltranzismo sciaguratamente vellicato. È il viale che percorrono i capi-partito nei sistemi politico-istituzionali che funzionano. Ti presenti di fronte all’opinione pubblica dopo aver prevalso nel tuo partito; vinci nelle urne e governi; perdi e scompari. Un avvicendamento virtuoso. La politica, quando è intesa e vissuta seriamente, è una macchina che ti esalta e ti stritola; ti porta in cielo quando azzecchi le mosse e ti archivia senza pietà quando sbagli. Affascinante. Peccato che da noi non funzioni così. Da noi vige il ritorno del sempre uguale e la novità più clamorosa che possa manifestarsi è richiamare chi ha lasciato per sbandamenti pregressi. È capitato con Enrico Letta, magari succederà perfino con Matteo Renzi. Per non parlare del monumento Berlusconi o dell’intramontabile e mai dimenticato Prodi. Da noi il “Rieccolo” di fanfanian-montanelliana memoria non è una casualità: piuttosto una ragione sociale. In Gran Bretagna nessuno ha nostalgia di chi si è fatto da parte: sono le regole del gioco. Da noi il rimpianto di quello che è stato è irresistibile: vale per l’Ulivo d’antan come per il centrodestra che fu nato sotto il segno del Cav. Tra i Britons il meccanismo crudele della sostituzione obbligata consente la rigenerazione dell’offerta politica. Nel Belpaese la fissità del rinnovamento gattopardianamente inteso è un muro invalicabile per l’arrivo di forze fresche, quando poi non si trasforma in melassa che inghiotte anche le migliori energie. È ciò che sta accadendo a SuperMario Draghi, che doveva irrorare col concime della sua autorevolezza il perimetro arso della politica e invece deve cimentarsi su un palcoscenico da operetta. Quel che infatti più sconcerta non è la recitazione da vaudeville di alcuni dei principali leader nostrani quanto la sindrome della doppia impossibilità che ci avvinghia. È impossibile, oltre che irresponsabile, trascinare il Paese in una crisi di governo che magari sfoci in elezioni anticipate in un momento delicatissimo quale quello che stiamo vivendo. Come altrettanto impossibile è proseguire con la serie infinita di pseudo ultimatum che fiaccano l’azione di governo, prosciugandola e logorandola, quando al contrario ci sarebbe bisogno del massimo di compattezza per non perdere le opportunità che il Pnrr offre. Questa doppia impossibilità è veleno puro per le potenzialità dell’Italia. Minaccia di riverberarsi anche sul dopo elezioni del 2023. È la crisi di sistema che ci trascina a fondo. Di Carlo Fusi

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