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Fine legislatura

Fine legislatura: cronaca di un’anomalia

Una fine per la legislatura che non è arrivata alla sua scadenza naturale. Uno scioglimento delle Camere che è un unicum, una vera e propria anomalia.
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Fine legislatura: cronaca di un’anomalia

Una fine per la legislatura che non è arrivata alla sua scadenza naturale. Uno scioglimento delle Camere che è un unicum, una vera e propria anomalia.
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Fine legislatura: cronaca di un’anomalia

Una fine per la legislatura che non è arrivata alla sua scadenza naturale. Uno scioglimento delle Camere che è un unicum, una vera e propria anomalia.
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Una fine per la legislatura che non è arrivata alla sua scadenza naturale. Uno scioglimento delle Camere che è un unicum, una vera e propria anomalia.

Doveva essere l’ultimo governo della legislatura. Così è stato. Ma la legislatura non è arrivata alla scadenza naturale del quinquennio. Uno scioglimento delle Camere che è un unicum, una vera e propria anomalia. Difatti il capo dello Stato non ha esercitato questa sua prerogativa perché il governo Draghi è stato battuto in una votazione fiduciaria da uno dei due rami del Parlamento. No, si è rassegnato a questa extrema ratio nonostante che il governo avesse riportato in questi giorni la fiducia del Senato per ben due volte e per una volta anche quella della Camera.

Lo scioglimento è stato possibile perché Draghi si è dimesso. E si è dimesso non solo per nervoso, come quell’artigiano fiorentino che ai tempi dell’alluvione del 1966 chiuse bottega allegando questo motivo. Ma soprattutto perché ben tre componenti della sua maggioranza – Cinque stelle, Lega e Forza Italia – mercoledì al Senato si sono allontanate dall’aula di Palazzo Madama perché contrarie alla risoluzione presentata da Pier Ferdinando Casini, sulla quale Draghi aveva posto la fiducia, volta ad approvare le comunicazioni del presidente del Consiglio. E in buona sostanza mirante a rimettere assieme i cocci della maggioranza.

Pertanto è stata preclusa la risoluzione del centrodestra di governo: Lega, Forza Italia e gruppi minori. Una risoluzione favorevole a Draghi, ma a patto che i Cinque stelle fossero sbattuti fuori dal governo e dalla maggioranza. Una condizione che Draghi non poteva accettare perché – voce dal sen fuggita? – aveva detto e ridetto che non avrebbe accettato un governo senza i Cinque stelle. Partito sì di maggioranza relativa ma che, come la macchina di Ridolini, aveva perso per strada parecchi pezzi e ormai dava l’impressione di essere sul punto di squagliarsi come il sangue di San Gennaro. Se Draghi si è impiccato alle sue parole, Conte e i suoi cari gli hanno reso un servigio. I senatori pentastellati, è vero, non hanno partecipato al voto sulla risoluzione Casini. Ma hanno garantito la loro presenza in aula al fine di assicurare il numero legale e perciò favorire l’approvazione della risoluzione Casini. Così il partito più avverso a Draghi gli ha dato un’effimera boccata d’ossigeno.

Fatto sta, a dispetto di una fiducia concessa dal Senato con il contagocce, che la coalizione si è sgonfiata come un palloncino bucato. E l’altro ieri alla Camera Draghi ha detto che si sarebbe recato al Quirinale per dimettersi. Ma per prudenza ha usato il termine “determinazioni”. Il capo dello Stato ha preso atto delle dimissioni e ha invitato Draghi a restare in carica per il disbrigo degli affari correnti. Com’è capitato a Ciampi nel 1994, pure lui confortato ancora dalla fiducia parlamentare, anche Draghi potrà confidare in un’ordinaria amministrazione un po’ più estesa. L’ultimo atto Mattarella l’ha compiuto ricevendo al Quirinale i presidenti delle Camere per un parere, obbligatorio ma non vincolante, sullo scioglimento parlamentare. E poi ha motivato lo scioglimento.

di Paolo Armaroli

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