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politica estera

La politica estera dovrà essere l’ago della bilancia nelle elezioni

L’elemento più determinante nella caduta del governo Draghi è la politica estera: una parte della politica italiana non avrebbe voluto mostrare così tanta avversione a Putin. E questo discrimine sarà fondamentale anche nelle urne dove bisognerà decidere da che parte stare tra Russia e Occidente, tra le democrature e le democrazie, tra satrapi e leader scelti senza condizionamenti.
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La politica estera dovrà essere l’ago della bilancia nelle elezioni

L’elemento più determinante nella caduta del governo Draghi è la politica estera: una parte della politica italiana non avrebbe voluto mostrare così tanta avversione a Putin. E questo discrimine sarà fondamentale anche nelle urne dove bisognerà decidere da che parte stare tra Russia e Occidente, tra le democrature e le democrazie, tra satrapi e leader scelti senza condizionamenti.
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La politica estera dovrà essere l’ago della bilancia nelle elezioni

L’elemento più determinante nella caduta del governo Draghi è la politica estera: una parte della politica italiana non avrebbe voluto mostrare così tanta avversione a Putin. E questo discrimine sarà fondamentale anche nelle urne dove bisognerà decidere da che parte stare tra Russia e Occidente, tra le democrature e le democrazie, tra satrapi e leader scelti senza condizionamenti.
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L’elemento più determinante nella caduta del governo Draghi è la politica estera: una parte della politica italiana non avrebbe voluto mostrare così tanta avversione a Putin. E questo discrimine sarà fondamentale anche nelle urne dove bisognerà decidere da che parte stare tra Russia e Occidente, tra le democrature e le democrazie, tra satrapi e leader scelti senza condizionamenti.
La caduta del governo di Mario Draghi è frutto di una concezione, chiamiamola così, “avventurista” della politica italiana. E c’è un elemento, richiamato ieri da Angelo Panebianco, che è risultato determinante: le scelte di politica estera all’indomani del conflitto tra Russia e Ucraina. Altro che termovalorizzatore di Roma; altro che concessioni balneari e taxi, che pure hanno contribuito non poco a scardinare il fragilissimo equilibrio di governo prodottosi in nome di SuperMario. La realtà è che lo scollamento progressivo delle larghe intese si è avviato quando si è trattato di stabilire dove collocare l’Italia nello scenario bellico e, giù pe’ li rami, come una incontrollabile slavina si è via via ingrossato fino a diventare una forza capace di stritolare l’esecutivo e il suo presidente del Consiglio. Lo scontro si è sviluppato sulle scelte di campo tra invasi e invasori, sugli ammiccamenti a Mosca, sulle riserve ammantate di pacifismo un tanto al chilo riguardo l’approvvigionamento militare a Kiev. Da allora è scattato il countdown che ha portato alle contorsioni dei partiti sulla fiducia e alla riedizione della liaison gialloverde che alla fine, strumentalmente palleggiandosi le responsabilità, ha espugnato Palazzo Chigi radendo al suolo il governo più autorevole dentro e fuori i confini nazionali da decenni a questa parte. Che significa tutto questo? Vale la consapevolezza, che è giusto gli elettori posseggano, che la campagna elettorale avrà un discrimine preciso (magari colpevolmente sottaciuto, come dice Panebianco): la politica estera e le conseguenze che il conflitto tra Putin e Zelensky – purtroppo destinato a durare – avrà sugli equilibri geopolitici, economici e sociali dell’Europa. Non siamo nel 1948. Per certi versi fortunatamente perché l’armamentario ideologico che inquinava il dibattito politico ha perso mordente; per altri meno perché allora c’era minor confusione e scegliere era più facile anche se magari più semplicistico, come gli eventi successivi hanno dimostrato. Ma il punto non cambia. Nelle urne ci finirà la decisione da che parte stare tra Russia e Occidente, tra le democrature e le democrazie, tra satrapi e leader scelti senza condizionamenti. È una linea di demarcazione che vede da una parte i populismi variamente ammantati e dall’altra gli anti populisti tesi a denunciare i pericoli che provoca surfare sulle onde della demagogia. Nello scontro in Parlamento dei giorni scorsi hanno vinto i primi; nei risultati elettorali si vedrà, perché il populismo fa leva sulle difficoltà e le angosce di vasti strati della popolazione e da decenni – non solo in Italia (ma qui più che altrove) – il voto di pancia ha preso il sopravvento su quello di testa. Anche per questo non sorprende, ma lo stesso colpisce e amareggia, la volontà trasversalmente presente di seppellire politicamente Draghi mentre è ancora vivo (e l’accusa di voler fare il “politico” è la freccia più avvelenata) ed è chiamato a gestire una serie di “affari correnti” che sono materia tutt’altro che trascurabile: dal decreto Aiuti alla stesura della nota di variazione al bilancio, propedeutica alla stesura della legge di Stabilità, alias Finanziaria della prima Repubblica. La ragione è semplice e scioccante. Draghi, pur con le sue insufficienze, errori e limiti era l’esempio vivente del rifiuto del populismo nonché espressione di una solidissima e strutturata diga contro le scorrerie degli “amici di Putin” ovunque collocati. La sua defenestrazione ha aperto una breccia in cui forze e interessi più o meno disinvolti vorrebbero infilarsi. Tocca agli italiani stabilire se assecondarli o bloccarli. Di Carlo Fusi

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