Ministero dell’Istruzione e del Merito nell’era Meloni
Giorgia Meloni come presidente del Consiglio ha già operato una vera e propria rivoluzione, si spera, non solo lessicale. In primis, nella ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in ‘Istruzione e Merito’.
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Ministero dell’Istruzione e del Merito nell’era Meloni
Giorgia Meloni come presidente del Consiglio ha già operato una vera e propria rivoluzione, si spera, non solo lessicale. In primis, nella ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in ‘Istruzione e Merito’.
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Giorgia Meloni come presidente del Consiglio ha già operato una vera e propria rivoluzione, si spera, non solo lessicale. In primis, nella ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in ‘Istruzione e Merito’.
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Giorgia Meloni come presidente del Consiglio ha già operato una vera e propria rivoluzione, si spera, non solo lessicale. In primis, nella ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in ‘Istruzione e Merito’.
La rivoluzione lessicale voluta dal governo Meloni per molti dei Ministeri ha colpito la fantasia, fatto discutere e anche generato qualche sorriso, come potrete leggere subito sotto. Fra le novità, quella che ci ha maggiormente colpito è la ridenominazione del Ministero dell’Istruzione in “dell’Istruzione e del Merito”. Musica per le orecchie di chi come noi ha sempre sottolineato l’esigenza di esaltarlo e valorizzarlo in un Paese storicamente ammalato di scatti di anzianità, progressioni di carriera lineari e gerontocrazia. Consuetudini da sbullonare evitando generici giovanilismi e premiando, appunto, competenza e merito. Fanno entrambe rima con concorrenza, altra parola di dubbia fortuna alle nostre latitudini.
Avere un ministro deputato al merito, dunque, è cosa buona e più che giusta, ma tremendamente impegnativa. Se il tutto dovesse fermarsi a una pur lodevole mini rivoluzione lessicale, francamente ne faremmo volentieri a meno. Affiancare il concetto di merito alla scuola e all’università (a proposito, i Ministeri sono tornati a essere spacchettati, scelta neutra ma sensata solo se ciascuna compagine saprà farsi motore di un miglioramento coraggioso) è una dichiarazione d’intenti. Il governo è appena nato e nessuno chiede miracolose novità in pochi giorni, ma in tempi brevi sarà giusto aspettarsi dei primi segnali concreti.
Facciamo degli esempi: si potrebbe spiegare – senza giri di parole e l’eterna paura di scontentare qualcuno – che l’alternanza scuola lavoro è cosa seria tanto per gli istituti quanto per le aziende. Una straordinaria occasione per cominciare a capire cosa sia il lavoro e per poter spiegare agli studenti che sproloquiano di “sfruttamento” cosa li attenda nel mondo lì fuori. Una realtà ultra competitiva, ma anche capace di esaltare la buona volontà e i talenti del singolo, se messi in condizione di esprimersi. I professori, punto dolentissimo, dovrebbero saper accettare una continua valutazione del loro operato, né più né meno ciò a cui dobbiamo preparare i nostri figli. Criteri oggettivi per giudicare i risultati del lavoro degli insegnanti ce ne sono (a cominciare dall’analisi di quanti dei propri studenti raggiungano la laurea e con quali voti o trovino più velocemente lavoro), avere il coraggio di proporli è tutt’altra faccenda.
I rettori delle università italiane invocano da tempo la possibilità di poter assumere o licenziare i professori, in base al merito degli stessi, disarticolando vecchi sistemi di potere che appesantiscono gli atenei. Le nostre università d’eccellenza, grazie al cielo non poche, indicano la strada: mettersi in concorrenza con il meglio al mondo. Per poterlo fare, non c’è alternativa all’attirare i professori e gli studenti più bravi. Anche stranieri, favorendo un’immigrazione d’alto profilo, in cui sono ferratissimi gli anglosassoni.
A chi invariabilmente bolla una formazione siffatta come “elitaria”, rispondiamo che è proprio la mancata concorrenza fra scuole, università, singole cattedre e professori a escludere le classi sociali meno abbienti dalla possibilità di accedere alla migliore istruzione. È oggi – dati alla mano – che i figli dei ricchi hanno più possibilità, in un sistema che li mette al riparo dai più bravi. Liberiamo il talento e vediamo se sarà ancora sufficiente essere “figli di” per garantirsi l’accesso ai migliori atenei.
Diamo alle università, anche alle pubbliche, la possibilità di cercare finanziamenti privati e ai loro vertici di essere valutati in base ai risultati ottenuti, rispondendo delle scelte fatte e dei professori assunti. Questi ultimi andranno pagati, per inciso, in modo che scelgano le nostre università e non quelle straniere, perché concorrenza e merito non esistono senza mercato.
Regole chiare e trasparenti, libertà di gestione e valutazione dei risultati. Il merito dovrà passare anche da qui, se non vorrà restare confinato a una targa.
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